Esistono forme di intelligenza e di sensibilità verso il prossimo che resistono e di fatto contrastano una prassi psichiatrica fondata sulla repressione, sulla violenza e sulla reificazione del presunto malato
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“Continuate in quello che era giusto”
Alex Langer
In occasione della morte di Giorgio Antonucci ognuno di noi ha
espresso spontaneamente i propri sentimenti di lutto nel vivo ricordo
del contributo fondamentale che Giorgio ha dato alla causa della libertà
e della salute in particolare, a sostegno delle persone più emarginate e
discriminate nella nostra società e nell’interesse di tutta la
collettività considerato che la violenza della psichiatria può
abbattersi su chiunque di noi.
Oggi forse siamo in una fase nuova in cui alla prima reazione emotiva
può subentrare un discorso concreto. Se Giorgio ha piantato o
contribuito a piantare una foresta (da cui dipende il futuro della
umanità sul piano sociale, culturale e fisico) cosa possiamo fare per
continuare a tenere viva questa foresta?
Rispetto a cinquant’anni fa, le condizioni fisiche e ambientali sono
cambiate. Le mura del manicomio, per come storicamente realizzate, non
esistono più. E mutati sono anche gli strumenti di controllo dei
comportamenti oggi in uso: per certi versi meno cruenti (anche se questa
non è una costante, soprattutto se osserviamo il panorama mondiale) e
più sofisticati ma anche più diffusi, pervasivi e capillari. Pensiamo
all’ipotesi del braccialetto per controllare non più solo i detenuti
agli arresti domiciliari ma anche i lavoratori. Pensiamo
all’avveniristica ipotesi prospettata da scienziati cinesi di
controllare, con gli strumenti della neuroimaging, anche i pensieri e persino gli umori e la “fedeltà”dei lavoratori nei confronti del sistema aziendale.
Ma è il caso di tornare sullo specifico della psichiatria.
Già molti anni fa, anche prima della legge 180, i più lungimiranti
paventarono il rischio che si passasse dal manicomio al “terricomio”,
il rischio cioè (non nuovo ma incombente persino dagli anni ’50 del
secolo scorso) che la contenzione fisica cedesse il passo alla
contenzione chimica cioè farmacologica.
Pare di poter dire che oggi il tasso di coercitività e quindi di
violenza della psichiatria è ancora estremamente elevato e peraltro
associato a fortissime fluttuazioni territoriali.
Basta leggere i dati sui Tso – trattamenti sanitari obbligatori – in
Italia; o anche osservare il quadro dell’uso dei mezzi di contenzione
fisica (ancora oggi in esercizio) nei presìdi ospedalieri pubblici, per
non parlare di quelli privati.
Per entrare più nel dettaglio della critica all’esistente svilupperò il discorso in tre capitoli:
- Dagli OOPPGG alla REMS
- Modalità di gestione e presa in carico della sofferenza psichica : intervento della sanità pubblica e di quella privata
- Approccio sociale e approccio “specialistico”
Dagli OOPPGG (ospedali psichiatrici giudiziari) alle RREEMMSS (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza)
Ci sono voluti 40 anni dopo il 1978 perché i decisori politici
prendessero atto di un ragionamento molto semplice: se il manicomio non è
una risposta idonea in generale perché dovrebbe essere idonea per
quelle persone dichiarate “incapaci di intendere e volere” che hanno
commesso reati? Come sappiamo la stragrande maggioranza dei reati di
riferimento, storicamente parlando, sono stati quelli che vengono
definiti di basso profilo giuridico o, nel linguaggio informale, reati
“bagatellari” che tuttavia molto spesso, a causa delle immotivate e
abusive reiterazioni delle misure di sicurezza, si sono trasformati in
lunghe pene o persino ergastoli. A una certa data le istituzioni hanno
avuto un sussulto (molto tardivo) di realismo e dopo una inchiesta
parlamentare che ha nuovamente fotografato la situazione orrida e
disumana degli ooppgg (un giornalista emiliano parlò di quello di Reggio
Emilia come «il canile in cui vengono tenuti gli uomini») ha varato un
procedimento formale di superamento e di trasformazione che ha portato
appunto allo scioglimento della vecchia struttura e all’istituzione
delle REMS. Ora si tratta di verificare se e quanto la Rems sia cosa
diversa dall’Opg. Nella Rems , nonostante il superamento degli aspetti
più lugubri e palesemente manicomiali degli ooppgg, sopravvive un
approccio custodialistico che connota alla fine la struttura più come
carcere che come luogo di accoglienza. Di recente nella Rems di Bologna è
stato collocato un filo spinato di foggia militare, verosimilmente
“giustificato” da un pregresso episodio di fuga di un immigrato
detenuto. In verità, se la istituzione ritiene di dover evitare le fughe
(in effetti ciò è coerente con lo statuto attuale della Rems) deve
comunque farlo con strumenti diversi senza mai comunque rinunciare a
guadagnare il consenso della persona. Se la persona percepisce la sua
permanenza in una residenza di questo tipo come opportunità (se le
relazioni sociali non vengono contrastate, la permanenza diventa
occasione anche di apprendimento in termini di cultura e di
professionalità ecc.) è evidente che la accoglienza si trasformerebbe in
quello che dovrebbe essere: occasione di empowerment e di miglior
benessere rispetto ad altre opportunità di stentata sopravvivenza
all’esterno.
Al momento si evidenziano queste contraddizioni:
- Le Rems non sono sottoposte al monitoraggio da parte delle Ausl come invece noi proponiamo da tempo
- Le sedi per numero e dislocazione non paiono rispondere a criteri compatibili con il principio della territorializzazione della pena
- Sono presenti in Italia alcune Rems gestite dal privato (quantomeno in Puglia e in Piemonte) e questa è una scelta assolutamente inaccettabile
- Le prerogative della persona internata paiono addirittura inferiori a quelle accordate (sulla carta, poi è tutto da verificare) alla persona in Tso; in effetti tuttavia non è sempre chiaro se la impostazione custodialistica persino più rigida di quanto accada in regime di Tso sia un imput dei magistrati e/o una opzione degli operatori
- Le Rems rimangono un terreno in cui attecchisce ai massimi livelli l’ideologia e la prassi di una psichiatria difensiva la quale piuttosto che concentrarsi sul percorso di riabilitazione mette in pole position la “sicurezza sociale” (come al solito in termini di ordine pubblico) e la sicurezza degli operatori e dei giudici frequentemente più inclini alla prassi di “buttare la chiave” piuttosto che a “rischiare” la libertà; molto spesso il modo o l’unico modo di uscirne è quella forma di adesione passiva al trattamento che si materializza nella somministrazione dei farmaci depot i quali rappresentano la massima espressione di diffidenza del “curante” nei confronti del “curato”
- Lo stato italiano peraltro non ha una idea chiara del quadro , se così vogliamo dire, “epidemiologico” del disagio psichiatrico; sono fin troppi i casi (spesso denunciati da Radio Carcere) in cui tante persone sono state trattenute in gabbia solo perché “non c’era posto nella Rems”. A rendere poi più nebulosa e fosca la prospettiva futura sta l’irresponsabile incertezza con cui il Parlamento sta gestendo o meglio sta ibernando la riforma del nuovo regolamento penitenziario; una incertezza che prelude a intenti apertamente dichiarati di crescita dei tassi di carcerazione
- In conclusione le Rems devono essere superate e sostituite da strutture non penitenziarie capaci di gestire la accoglienza e di mettere in campo veri percorsi di riabilitazione e di socializzazione.
Modalità di presa in carico della sofferenza psichica
Un primo dato apparentemente sorprendente è che in materia di
psichiatria la parola “prevenzione” pare non pronunciabile. Sollevai un
problema, nel corso del mio lavoro istituzionale nella Ausl di Bologna :
per quale motivo nel dipartimento di prevenzione delle Ausl – in quella
sorta di “direzione” che si riuniva per discutere periodicamente della
programmazione del lavoro vi fossero medici igienisti, del lavoro,
veterinari, chimici, ecc.- non vi fosse nessun portavoce della
psichiatria? Il fatto è che oggi la psichiatria
istituzionale/pubblica e, peggio ancora, quella privata, si colloca –
come nella peggiore tradizione storica della medicina generale – dietro
una scrivania ad aspettare che si manifesti “il sintomo” per : gestirlo
(prevalentemente in una ottica di ordine pubblico), reprimerlo,
distruggerlo, cronicizzarlo, quasi mai per prevenirlo.
E’ come se la medicina generale fosse rimasta ancorata ad un modello operativo che mostra indifferenza verso la diffusione dei cancerogeni nell’ambiente per poi intervenire solo di fronte alla malattia conclamata. Non che la questione , per la medicina generale appunto, sia da considerare “chiusa”; tutt’altro ( vedi bibliografia,Un’altra medicina è possibile). Ma il confronto tra prevenzione e medicina curativa è, almeno, sempre stato vivo anche se con vicende alterne per l’una o l’altra sponda.
Viceversa in”psichiatria” la prevenzione è stata quasi sempre ridotta
a un tabù, salvo alcune importanti ricerche sia in epidemiologia che
nel campo di quella che è stata definita geopsichiatria. Non sono
mancate peraltro capacità di osservazione e di analisi sulle cause dei
disturbi psichiatrici o in particolare dei comportamenti suicidari
(ovviamente non correlati univocamente alla questione psichiatrica) però mai in Italia e nel mondo abbiamo visto estrinsecarsi un vero programma di prevenzione. Un
programma di prevenzione non è nell’interesse delle multinazionali del
farmaco né del potere politico ed economico in quanto andrebbe a
configgere con interessi e gerarchie consolidati. A esempio, dopo alcune
esperienze significative nel campo del distress e del mobbing
occupazionale ora è facile che il lavoratore “depresso” a causa di
costrittività lavorative si senta rispondere dall’operatore della
prevenzione(!): «lei dovrebbe ringraziare perché almeno un lavoro ce
l’ha… di questi tempi». Ovviamente la prevenzione in alcuni ambiti
macrosociali (i luoghi di lavoro, le scuole, le comunità) può essere più
facile che non in ambiti protetti e riservati come le famiglie.
Tuttavia , a mio avviso, la questione della prevenzione che è sempre
stata importante lo sarà sempre di più nel futuro, a causa della
aggressività mistificante e illusoria delle teorie biologiche che sono a
sostegno del consumismo farmacologico.
Una constatazione che considero un “evento-sentinella” mi ha impressionato : a Bologna, in tutta la città, non pare reperibile una copia del libro “Anoressia mentale” di Palazzoli –Salvini. Un
classico e monumentale esempio di approccio non organicista ma
relazionale e psicodinamico a una delle più gravi forme di sofferenza
psicologica di giovani adolescenti : gli studenti e i futuri specialisti
di Bologna dove possono andarlo a studiare?
Parimenti nell’ambito del recente “Festival della scienza medica” (**) sono
stati riproposti i vecchi stereotipi che riconducono la violenza contro
le donne alla devianza psicopatologica (e all’alcolismo) come fonte
principale; la stessa operazione si tenta di fare per spiegare la ondata
di intolleranza con punte di violenza omicida nei confronti di
immigrati.
Ovviamente non basta riandare alle nostre biblioteche (T.Scheff, Per infermità mentale,
nella collana “Medicina e potere”) ma occorre che la nostra memoria e
la nostra consapevolezza vengano maggiormente socializzate.
Approccio sociale e/o specialistico
Come già detto la strada maestra è la prevenzione, strategia
difficile oggi anche a causa del bombardamento mediatico che evoca
ipotesi e soluzioni di tipo biologico. Di recente i media hanno
rilanciato tesi organicistiche rispetto alla cosiddetta “schizofrenia”
ed è evidente che come conseguenza di queste forme di persuasione
occulta, ma anche palese, si possa consolidare una idea sbagliata
secondo cui esiste una “malattia mentale” con base organica che prima o
poi sarà completamente guarita da un farmaco scoperto dalle benevoli e
filantropiche multinazionali. E se non sarà risolta da un farmaco,
potrebbe essere risolta, un domani, da un trapianto cerebrale. Non
voglio sostenere – e non credo infatti – che si potrà fare a meno, anche
in futuro, di esperti nel campo del benessere e della salute mentale.
Storicamente queste figure sono sempre esistite: dallo sciamano
preistorico, all’esorcista medievale, all’alienista illuminista comparso
nel Settecento, al frenologo lombrosiano dell’Ottocento… Queste figure
hanno sempre operato –con enormi differenze tra loro, ovviamente – ma
sempre a partire da un dislivello di potere enorme rispetto alla persona
che chiedeva o era indotta/costretta a chiedere il suo “aiuto”. Si
tratta di far evolvere questo rapporto da una condizione gerarchica e
vessatoria ad una relazione connotata da “validazione consensuale”
reciproca , secondo l’esperienza che fu alla base della nascita della
medicina del lavoro contemporanea in Italia (validazione consensuale e
non delega al tecnico).
Che fare?
Esistono forme e sacche di resistenza e di resilienza nonché
tentativi di miglioramento tesi a superare la associazione obbligatoria
fra psichiatria e coercizione.
Purtroppo l’antipsichiatria è stata relegata in piccole nicchie di
resistenza più ideologica che pratica e quindi non in grado di
modificare la realtà in maniera significativa. Il dissenso è sempre
storicamente minoritario e, se pure inefficace, deve comunque continuare
a vivere, pena la perdita persino della speranza – futura – del
cambiamento. Occorre ragionare su come passare dal dissenso
intellettuale e minoritario alla conquista della maggioranza. Esistono
forme di intelligenza e di sensibilità verso il prossimo che resistono e
di fatto contrastano una prassi psichiatrica fondata sulla repressione,
sulla violenza e sulla reificazione del presunto malato.
A mio avviso alcuni obiettivi per l’immediato futuro potrebbero essere questi:
- Immaginare, proporre e cercare di realizzare un piano per la prevenzione e per la crescita del benessere psichico
- Contrastare sul piano culturale e pratico la psichiatria manicomiale fondata su stereotipi e coercizione
- Imporre che dalle politiche di gestione vengano escluse finalità di lucro e sia dunque vietato l’intervento privato
- Escludere pratiche di contenzione fisica e chimico-farmacologica
- Garantire modalità di presa in carico del disagio solo di tipo consensuale, escludendo i trattamenti sanitari obbligatori che mostrano in Italia una drammatica discrepanza di entità numerica da regione a regione, un dato sul quale non pare essere in atto una discussione concreta per individuarne le motivazioni nonostante che l’enormità (le discrepanze vanno da 3 a 22 persone per 100.000 abitanti all’anno a seconda della regione)
- Nazionalizzare la produzione farmaceutica e/o quantomeno sottoporre ogni produzione e vendita a rigorosi sistemi di monitoraggio e supervisione (vedi attività dell’Istituto Cochrane)
- Istituire il ruolo di garante di fiducia a sostegno delle persone per le quali si propongono trattamenti coatti (qualora questi non fossero – come invece prospettiamo – totalmente superati )
- Potenziare i gruppi di auto-aiuto proponendo un rapporto con i “tecnici” fondato sulla non delega e sulla validazione consensuale
- Allargare la vigilanza delle Asl , ma con effettivi poteri ispettivi, alle strutture in cui la persona sia trattenuta e privata della sua libertà (cpt, cie, rems, spdc eccetera)
- Creare sinergie e unità di azione fra le varie isole dell’arcipelago (oggi troppo frammentato) italiano e mondiale della antispichiatria per far crescere le pratiche che rispettano la libertà e la dignità della persona.
Vito Totire
Bologna/Imola, 20.5.2018
BIBLIOGRAFIA
P. Gotzsche, Medicine letali e crimine organizzato, Fioriti editore, collana Naviganti
M. Marmot, La salute diseguale, Il Pensiero Scientifico editore
T. Scheff, Per infermità mentale, collana Medicina e Potere a cura di Giulio Maccacaro, ed. Feltrineli
J. Seikkula, Il dialogo aperto, Giovanni Fioriti editore
V. Totire, Un’altra medicina è possibile, osservazioni a
“margine” del IV festival della scienza medica di Bologna, 3-5 maggio
2018 (archivio circolo “Chico” Mendes/Centro “F. Lorusso”; ripreso anche in questa “bottega”
(*) Queste osservazioni sul futuro della psichiatria sono state
esposte in occasione dell’incontro a Imola del 20 maggio per ricordare
Giorgio Antonucci.
L’IMMAGINE IN ALTO è dell’archivio Berneri di Bologna. Le altre due – scelte dalla “bottega” – del qui molto amato Yacek Jerka.
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