articolo tratto da: https://storiamestre.it/category/piero-colacicchi/
il libro è scaricabile gratuitamente qui:
Ricordiamo il nostro amico Piero Colacicchi, a un anno dalla sua scomparsa, ripubblicando una sua testimonianza relativa alla prima “visita di controllo popolare” all’ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia, avvenuta il 23 novembre 1970.
Questo resoconto della prima visita di controllo popolare da parte di un gruppo numeroso di cittadini a una istituzione manicomiale che, per quello che mi risulta, sia mai avvenuta, è stato scritto servendosi di una serie di appunti da me stesso ripresi nei giorni immediatamente successivi, e integrato con interviste e ricerche fatte qualche anno dopo, e parzialmente pubblicate nel libro di Giorgio Antonucci I pregiudizi e la conoscenza. Critica alla psichiatria (1986).
Avevo conosciuto Giorgio Antonucci qualche anno prima, nel 1967, quando lui come medico, io come docente dell’Accademia di Belle Arti [di Firenze], collaboravamo nel Laboratorio “La Tinaia” dell’Ospedale Psichiatrico di San Salvi a Firenze, ed io, fin dall’inizio, mi ero convinto dell’importanza delle sue posizioni completamente diverse da quelle di tutti gli altri. Eravamo quindi rimasti in stretto contatto e io seguivo con molto interesse e partecipazione l’evolversi del suo lavoro. Ci legava e ci lega tuttora, in maniera particolare, una profonda indignazione nei confronti di quanto si vede nelle istituzioni psichiatriche e, attraverso di lui, avevo imparato a raggiungere una certa capacità critica nei confronti della psichiatria stessa, tanto che, già all’epoca di Reggio, ne avevo capito il carattere di ideologia puramente repressiva, priva di qualsiasi significato o valore scientifico, alla pari del razzismo. E fu per l’appunto durante la mostra “Libertà nel Mississippi” – mostra di fotografie e opere d’arte – che avevo ideato e poi contribuito a organizzare nel 1964 al Palazzo di Parte Guelfa a Firenze insieme a Mario Materassi e Vicky Halper sotto la direzione di Enzo Enriquez Agnoletti, che conobbi quei collaboratori del prof. Mori, che, l’anno dopo, mi avrebbero chiamato a metter su, come tecnico, il Laboratorio “La Tinaia”.
L’occasione della prima calata (così furono, in seguito, chiamate questa e le successive visite di controllo al manicomio, in quanto iniziate da cittadini della montagna nei confronti di una istituzione posta in pianura e controllata da Reggio) fu preceduta da una lunga serie di giornate trascorse a Reggio durante le quali ebbi modo di visitare ripetutamente il Centro di Igiene Mentale, di incontrare coloro che vi lavoravano, e di parlare con i politici che, in quel periodo, si interessavano al problema del manicomio e della salute mentale sia a Reggio Emilia, sia a Castelnuovo ne’ Monti, sia in altre località della provincia reggiana. Potei così partecipare a tutti i momenti principali che le precedettero.
Di particolare importanza per me, ma forse anche per gli altri che vi parteciparono, fu una giornata trascorsa a girare per i paesi della montagna, circa due mesi prima delle calate, fra Castelnuovo, Cervarezza, e i villaggi più alti, durante la quale incontrammo numerose persone, la cui situazione era stata segnalata al Centro di Igiene Mentale, che rischiavano il ricovero o già ne avevano subiti: li andammo a trovare nelle loro case, vedemmo le condizioni in cui vivevano, ne incontrammo i familiari. Nel paese di Succiso, piccolo gruppo di case sparse fra i monti, facemmo la conoscenza di un anziano operaio edile, ex partigiano, decorato, ormai invalido e solo, che durante gli inverni veniva ripetutamente rinchiuso nel manicomio di Reggio. In poco tempo, mostrandoci le medaglie che si era guadagnato, ci raccontò la storia della sua vita, dall’epoca della guerra allo stato attuale di miseria in cui si trovava, in quel villaggio poverissimo e abbandonato. E ci spiegò come, alle sue richieste di aiuto e alle sue proteste – che, naturalmente, si facevano più forti e più insistenti all’avvicinarsi dell’inverno – gli amministratori rispondevano da anni per mezzo degli psichiatri, segregandolo nei reparti del San Lazzaro.
Tutti quelli che incontrammo ci spiegarono, con la massima lucidità e precisione, il loro stato, che era invariabilmente quello di persone povere, dimenticate e prive di mezzi per difendersi e sopravvivere: il loro ricovero, ci mostrava con chiarezza Antonucci, non rappresentava altro che un modo per far sparire, cioè per eliminare definitivamente il problema morale, e ancor più politico, rappresentato dalla loro esistenza.
Tutti quelli che incontrammo ci spiegarono, con la massima lucidità e precisione, il loro stato, che era invariabilmente quello di persone povere, dimenticate e prive di mezzi per difendersi e sopravvivere: il loro ricovero, ci mostrava con chiarezza Antonucci, non rappresentava altro che un modo per far sparire, cioè per eliminare definitivamente il problema morale, e ancor più politico, rappresentato dalla loro esistenza.
Era così, attraverso la ricostruzione accurata delle storie di coloro che si presentavano al Centro di Igiene Mentale o che lui stesso andava a trovare, che Antonucci si contrapponeva alla psichiatria, compresa quella esistente all’interno dello stesso sevizio. In questo modo riusciva a dimostrare come vi fosse sempre un rapporto tra la condizione economica povera, la susseguente estraneazione dall’ambiente culturale di origine attraverso la forzata emigrazione – compresa quella dalle campagne alle città – e l’intervento psichiatrico. E poteva così proporre, invece che internamento e psicofarmaci, soluzioni socialmente concrete e, nel frattempo, solidarietà e aiuto immediato.
Presto anche gli altri componenti del suo gruppo smisero di usare termini psichiatrici sostituendoli con succinte analisi della storia di coloro che si rivolgevano al Centro di Igiene Mentale per aiuto, e l’insieme di tante storie ricostruite correttamente cominciò a dare un quadro della condizione della Montagna molto diverso da quello ufficiale. Gli innumerevoli episodi di ricovero, della cui quantità e del cui significato nessuno si era accorto, ritenendoli casi di malattia separati l’uno dall’altro, visti nel loro insieme e sotto la giusta luce, apparvero come una vera e propria deportazione delle persone più significative e quindi come segnale di una grave oppressione ai danni delle zone più lontane dai centri produttivi. Il risultato di tali indagini non mancò di attirare l’attenzione di importanti personalità della politica locale – regolarmente ricercate e avvisate da Antonucci – che apparvero presto molto impressionate dalla mole di lavoro e dai risultati: cioè dall’effettivo impedimento dei ricoveri.
Nel frattempo l’atmosfera che trovavo al Centro di Igiene Mentale di Reggio Emilia era sempre molto tesa. Era evidente la spaccatura in due gruppi: uno, il più consistente dal punto di vista numerico, era composto da [Giovanni] Jervis, da gran parte dei medici e da vari operatori; l’altro, il più piccolo, era quello di Antonucci. Il primo aveva una impostazione decisamente psichiatrica, moderatamente basagliana – cioè contraria, almeno a parole, al manicomio chiuso – ma favorevole all’uso di psicofarmaci e di altre tecniche psichiatriche, era politicamente collegato alla dirigenza del partito comunista, e quindi a buona parte degli amministratori pubblici di Reggio; il secondo, chiaramente avverso alla psichiatria e quindi a tutti i suoi strumenti, e al suo gergo, era vicino ai gruppi di base del PCI e della CGIL, a esponenti di vari gruppi extra parlamentari, agli studenti e a quei pochi dirigenti del PCI veramente legati agli interessi della popolazione della montagna, agli strati più poveri, ai lavoratori delle fabbriche, agli agricoltori.
È necessario, infine, un breve accenno alla situazione politica generale in cui tutto ciò avveniva. Ci si trovava, in quegli anni, nel periodo in cui i vertici del PCI stavano varando il nuovo progetto di alleanza con le forze conservatrici e in particolare con la Democrazia Cristiana (detto compromesso storico): la divisione interna del Centro di Igiene Mentale di Reggio corrispondeva a quella esistente nella politica nazionale del PCI. Le forze di base vedevano con preoccupazione e a volte con aperta ostilità – specialmente gli operai metalmeccanici, presenti in gran numero a Reggio, che era i più combattivi – l’evolversi del nuovo corso. Il lavoro di Antonucci, e le calate che ne seguirono, con il loro carico di critica esplosiva, non solo nei confronti della psichiatria, ma di tutta la politica che la psichiatria, in parte, riusciva a coprire, arrivò proprio in questo momento di tensione: momento che, da una parte ne rese possibile i risultati, ma che, contemporaneamente, provocò quella reazione dei vertici amministrativi che, nel giro di due anni, avrebbe determinato la fine del movimento e l’allontanamento di Antonucci dall’area reggiana.
Quado mi fu annunciato che stava per avvenire la prima visita di controllo al Manicomio di San Lazzaro mancavo da Reggio da un paio di settimane. I momenti immediatamente precedenti e le vicende che la preparavano mi furono raccontati durante la mattinata stessa da Antonucci, da Giuseppe Garuti, suo collaboratore, infermiere del CIM, e da altri operatori. Seppi così della storia di Santina, che in seguito ebbi occasione di conoscere a Ramiseto, seppi delle riunioni popolari di preparazione, e infine della decisione di scendere direttamente a controllare la condizione dei sei ricoverati provenienti da Ramiseto, e nello stesso tempo di tutto l’istituto.
Il 22 novembre, nel primo pomeriggio, ricevetti una telefonata di Antonucci. Con voce eccitata mi avvertiva che per il giorno dopo era stata organizzata una manifestazione: la visita di un gruppo di persone al San Lazzaro: sul momento non capii bene. Provai a chiedere spiegazioni ma Antonucci mi interruppe per ripetere che dovevo assolutamente essere presente anch’io, e per chiedermi di avvisare altri amici eventualmente interessati. In particolare mi raccomandò che lo comunicassi a Giuseppe Favati e a Enzo Enriquez Agnoletti della rivista “Il Ponte”. Mi piace ricordare, a questo punto, l’estrema disponibilità e il rigore con cui furono sempre accolti e pubblicati i nostri scritti su “Il Ponte” – in genere stesi da Antonucci e a volte pubblicati con i nostri due nomi – particolarmente tenuto conto che il direttore della rivista Agnoletti, con cui avevo avuto più di una lunga conversazione a proposito, non era affatto d’accordo con noi. A differenza di Giuseppe Favati, redattore e factotum della rivista, che fin dal 1967 considerò importanti le nostre posizioni, e dal 1972 in poi, diventando anche lui molto amico di Antonucci, partecipò a vari dibattitti, preparò un libro, Dossier Imola e legge 180 (Idea Books-Edizioni, Milano, 1979) sulle vicende di quell’ospedale e dei problemi che vi incontrava Antonucci e scrisse articoli vari sulla psichiatria.
Ritornando al primo giorno delle calate arrivai a Reggio Emilia verso le otto di mattina e mi feci subito portare al San Lazzaro da un taxi. Faceva freddo e c’era nebbia. Accanto alla rete di cinta, vicino al cancello d’ingresso, aspettavano una quarantina di persone incappottate, alcuni fumando, altri stropicciandosi le mani per il freddo. Riconobbi alcuni che conoscevo e mi diressi verso di loro: insieme ad Antonucci c’erano Giuseppe Garuti, Eugenia Omodei Zorini, il senatore Lusoli, il vicesindaco di Ramiseto Bombardi, Letizia Jervis Comba, Lauro Gilli ed altri componenti della CGIL. Mancava Jervis.
Verso le nove, presenti tutti quelli che ci si aspettava dovessero venire, Antonucci ci guidò verso la portineria e chiese di entrare. Visto che eravamo tanti, il portiere, senza farci passare, avvertì il direttore dell’Istituto Professor Benassi, che arrivò immediatamente. Seguì una lunga discussione, all’inizio della quale Antonucci e il senatore Lusoli, che parlavano per tutti noi, illustrarono la nostra posizione, che era quella, principalmente, di controllare le condizioni in cui vivevano i cittadini di Ramiseto ricoverati nell’Istituto, di cui ognuno di noi aveva la lista dei nomi. Il Professor Benassi, preoccupato e contrario, cercò di persuaderci ad andarcene, dicendo, fra l’altro, che il regolamento gli imponeva di vigilare sulla tranquillità dell’ospedale, e che un numero così grande di persone avrebbe provocato scompiglio nei reparti, mettendo in pericolo la salute dei degenti. Le trattative andarono avanti a lungo senza risultati. Qualcuno cominciò a dire, ad alta voce: “Questo non vuole farci entrare perché ha paura di ciò che possiamo vedere: vuol dire che ha qualcosa di grosso da nascondere”.
Visto che l’atteggiamento del gruppo si faceva sempre più insistente, risoluto, e minaccioso, Benassi decise di cedere e ordinò ad alcuni infermieri di farci strada, ma anche di controllare che nessuno scattasse fotografie, come diceva lui “per rispetto ai malati”. Molti di noi avevano con sé macchine fotografiche e alcuni riuscirono di nascosto a scattare qualche foto. Io ne feci diverse, fra cui una, storta e mal esposta, ma espressiva, di un bambino legato che si protendeva verso Antonucci, fotografia che fu pubblicata nel libro già citato I pregiudizi e la conoscenza. Critica alla psichiatria1.
Entrammo, e, dato che nel frattempo si era fatto tardi, decidemmo di dividerci in due gruppi per esaminare ogni reparto dell’Istituto.
Il primo reparto in cui entrai, attiguo alla portineria, ci presentò immediatamente il mondo manicomiale in uno dei suoi aspetti più feroci, e, cosa ancora peggiore, più ordinari: in una grande camera dalle pareti squallidamente vuote un gruppo di infermiere era tranquillamente intento a lavare per terra e a rifare i letti, mentre, legate alle inferriate delle finestre, nove donne quasi nude gridavano e si lamentavano. Alle nostre richieste di spiegazioni, le infermiere risposero, risentite, che dovevano legare le pazienti perché altrimenti avrebbero intralciato il lavoro oppure avrebbero immediatamente sporcato.
Questo spettacolo, e specialmente l’atteggiamento delle infermiere di fronte alla nostra indignazione, ci trasformarono, da incerti e ancora un po’ imbarazzati che eravamo all’inizio, in un gruppo infuriato e deciso a procedere fino in fondo. Da quel momento in poi non passammo davanti ad alcuna porta senza avere controllato la stanza corrispondente.
La cosa che ricordo con maggiore chiarezza, perché per certi versi straordinaria, era l’atteggiamento dei visitatori, molti dei quali contadini e montanari, che sapevo, per esperienze precedenti, essere piuttosto abituati a rapporti di soggezione nei confronti dei medici: in quella occasione, trasformati dalla rabbia di ciò che continuavano a vedere e che proprio non si erano aspettati, cominciarono a dare duri comandi senza esitazione. “Apra quella porta”, “Mi faccia vedere cosa c’è là dentro”, ordinavano: e i medici, con tanto di camice addosso, ma soggiogati dal potere di quelle voci, obbedivano precipitandosi a fare quanto comandato.
Traversammo vari reparti e in vari stanzoni simili al primo trovammo gente legata a letti o a panche.
Antonucci, prima di entrare nell’Istituto, si era raccomandato che noi ci limitassimo ad osservare, e che parlassimo soprattutto con i ricoverati, per chiedere la loro storia e capire com’erano finiti lì dentro.
“Perché non sopportavo di vivere nella mia catapecchia dopo che le bombe mi avevano distrutto la casa e la famiglia”, rispose uno.
“Perché mio marito, disoccupato e spesso ubriaco, era geloso”.
“Perché da ragazzo mi ferii con un coltello a un occhio”.
“Perché non riuscivo a lavorare e ad essere attivo dopo che da partigiano i tedeschi e i fascisti mi avevano obbligato a scavare la fossa per altri compagni, uno dei quali mio amico fraterno. Ricordo che li fucilarono davanti ai miei occhi e mi costrinsero a seppellirli alcuni ancora vivi. Sento di continuo la voce del mio amico che mi si era aggrappato alle gambe chiedendomi aiuto”.
Risultò che la maggior parte dei ricoverati era chiusa là dentro da decine di anni, alcuni anche da oltre cinquanta. Quasi tutti di estrazione operaia o contadina, spesso di famiglie poverissime, e i più analfabeti. (Le stesse storie di uomini, lucidi e disperati, logorati e umiliati dalla reclusione, dalle violenza e dagli psicofarmaci, che avo già incontrato a San Salvi a Firenze, e che avrei veduto anche nei manicomi di Imola, nel manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino, e nei grandi ospedali psichiatrici americani di Belleview e di Syracuse, nello Stato di New York).
Alla fine della mattinata ci dirigemmo verso l’edificio più lontano e più isolato, il reparto De Sanctis, dove venivano rinchiusi i bambini.
Prima di entrare dovemmo sostenere un’animata discussione con le infermiere, ed entrammo solo quando loro si furono assicurate che avevamo il consenso del direttore. Ancora un grande stanzone con panche lungo le pareti vuote, ma questa volta vedemmo ragazzi e bambini, alcuni sull’età di cinque-sei anni, alcuni legati, che piangevano e chiedevano di essere liberati. Ordinammo alle infermiere di scioglierli ma loro si rifiutarono.
Rimanemmo lì un po’ di tempo e cercammo di parlare con i bambini, ma fu difficile, specialmente per l’atteggiamento chiuso e minaccioso delle infermiere, che si intromettevano protestando ogni volta che si provava ad avvinarci.
Dopo un po’, mentre giravo per un corridoio, sentii qualcuno piangere disperatamente, ma non vidi nessuno. Mi sembrò che i lamenti provenissero da dietro una piccola porta metallica. Chiamai Antonucci ed altri e insieme chiedemmo ad una delle infermiere chi fosse chiuso là dentro. “Là dentro non c’è niente” rispose. Le ordinammo di aprire. Dietro la porta, chiuso a chiave in uno sgabuzzino buio di pochi metri, un ragazzino legato ad una sedia piangeva e ci guardava terrorizzato. Inorriditi chiedemmo all’infermiera perché non ci aveva detto che dentro c’era il bambino, e lei rispose che non se lo ricordava. Le chiedemmo perché fosse chiuso là dentro e lei rispose che di recente il bambino era stato operato di tonsille e era tenuto in quello stanzino perché non si facesse del male agitandosi.
Tornando all’uscita trovammo un uomo del gruppo che si era separato dal nostro, all’entrata; e quell’uomo imprecava asciugandosi le lacrime. Era entrato poco prima nel reparto in cui era ricoverato suo figlio e lo aveva trovato nudo in mezzo alla stanza, coperto di escrementi, mentre alcuni infermieri ed il medico, avvisati della nostra presenza nell’Istituto, tentavano inutilmente di lavarlo prima che arrivassimo.
Il giorno dopo, e i successivi, i giornali riportarono le notizie relative alla calata a grandi titoli, commentandole, naturalmente, ciascuno a modo suo.
«La fasciolina del Professor Benassi: alcuni cittadini di Ramiseto entrano al San Lazzaro per vedere come vengono trattati i loro familiari. Posta per la prima volta l’esigenza di un controllo popolare. Dichiarazioni del Dottor Giorgio Antonucci. Bambini piangenti legati alle sedie» (Reggio Quindici).
«Il San Lazzaro è ormai un campo di battaglia: tra chi lo vuole aperto, chi chiuso, e chi non lo vuole assolutamente» (Gazzetta di Reggio).
Nei giorni e nei mesi seguenti uscirono dozzine di articoli, alcuni dei quali su pagine nazionali in giornali come “L’Espresso” e “Paese Sera”.
Naturalmente i partecipanti alla visita all’Istituto tornarono alle loro case in montagne sconvolti da quanto avevano veduto. (“Tu ce lo avevi detto – ripetevano ad Antonucci – ma noi credevamo che tu esagerassi”). Così si sparpagliarono per i paesi vicini a incitare altri ad andare a vedere cosa succedeva al San Lazzaro, e a Ramiseto nacque un Comitato Popolare per coordinare il movimento. Così vennero organizzate le successive quattro calate che portarono nell’Istituto oltre cinquecento persone nel giro di poche settimane. L’ultima, formata in gran parte da operai delle fabbriche metalmeccaniche di Reggio, fu fermata da esponenti del Partito Comunista, in seguito a denuncia del Professor Benassi.
Ma ormai l’argomento “San Lazzaro” aveva invaso tutte le sedi politiche e amministrative della zona. Il movimento contro la psichiatria aveva raggiunto un’ampiezza e una profondità tale, e metteva in luce tali responsabilità, da diventare il problema chiave della situazione politica di tutta l’Emilia. Ampiezza in senso appunto geografico, in quanto coinvolgeva le province di Reggio e di Modena, e accennava ad allargarsi anche ad altre parti d’Italia, perché i temi di fondo, cioè la psichiatria e le responsabilità politiche che essa copriva, avevano un significato non solamente locale. Profondità perché toccava problemi gravi quali le scelte che avevano favorito l’urbanizzazione e l’emigrazione dalle campagne, le difficoltà dei rapporti tra base e vertice dei partiti, e le scelte sindacali.
Nota. Il testo è uscito con il titolo Le calate di Reggio Emilia. Testimonianza di Piero Colacicchi scritta da lui stesso, in Giorgio Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico, Prefazione di Thomas Szasz, Sensibili alle foglie, Roma 1993, pp. 69-78.
Nessun commento:
Posta un commento