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Nel 2015 la fuga del giovane finì in tragedia. Il giudice: non è reato. La madre: ucciso una seconda volta
PADOVA Assolto perché il fatto non costituisce reato. Il maresciallo Marco Pegoraro, da tre anni sotto accusa per aver sparato al 32enne Mauro Guerra il 29 luglio 2015 a Carmignano Sant’Urbano (Padova), è uscito sabato dal tribunale di Rovigo a testa alta, mentre la famiglia del giovane ucciso gridava tutta la sua disperazione, con la promessa che non sarebbe finita qui. «Oggi hanno sparato per la seconda volta a mio figlio. Con questa sentenza i carabinieri sono legittimati a uccidere», ha detto in aula GiusiBusinaro, la madre di Guerra.
La sentenza
La sentenza di assoluzione è arrivata dopo una lunga giornata, cominciata con la requisitoria del procuratore capo Carmelo Ruberto che ha chiesto l’assoluzione dell’imputato, facendo subito intendere la piega che avrebbe preso il processo. Marco Pegoraro sparò a Mauro Guerra, 32 anni, ex parà laureato in economia, perché il giovane stava picchiando un altro carabiniere, nel tentativo di liberarsi dalla pressante richiesta dei militari di sottoporsi a un trattamento sanitario obbligatorio non autorizzato né dal sindaco né da un giudice.
La ricostruzione
La morte del giovane avvenne nel pomeriggio del 29 luglio del 2015. La ricostruzione di quel giorno è stata al centro di un forte dibattito mediatico provocato dalla trasmissione Chi l’ha visto?, che ha mostrato in anteprima i video girati dai carabinieri quel pomeriggio, fino agli spari avvenuti nei campi. Mauro era giovane e forte, aveva un corpo massiccio, allenato da anni di bilancieri nel cortile di casa. Qualche giorno prima era andato dai carabinieri a parlare della sua volontà di fare una manifestazione contro gli islamici. L’insistenza di Mauro sulla questione del corteo aveva indotto i carabinieri a pensare che il giovane, conosciuto in paese e con un carattere esuberante, fosse ossessionato dalla «lotta agli infedeli». La mattina del 29 luglio il maresciallo Pegoraro disse a Mauro che sarebbe stato meglio farsi vedere da un medico. Mauro non accettò. Allora il comandante chiamò rinforzi avviando una lunga e tenace trattativa con il 32enne che non voleva salire in ambulanza. Convinto delle sue ragioni («Non avete un mandato» diceva Mauro) iniziò a dare segni di squilibrio per quel pressing cui venne sottoposto dalle 11 fino alle 15 quando fuggì dalla finestra, scalzo e in mutande, correndo verso la chiesa e poi per campi. Lo seguirono in dieci. E questo è il punto che sottolinea la parte civile rappresentata dagli avvocati Alberto Berardi e Fabio Pinelli: «Che male aveva fatto Mauro? Nulla, non c’era la necessità di assediarlo così, dovevano solo lasciarlo andare». E invece lo seguirono, un carabiniere riuscì a fermarlo. Mauro lo mise a terra e iniziò a picchiarlo con l’unica manetta al polso che i carabinieri erano riusciti a mettergli. Pegoraro, a una distanza di un metro e mezzo, sparò al 32enne, che venne colpito al fianco. Il giovane morì.
La famiglia
Per la famiglia Guerra i carabinieri sono colpevoli di aver messo in atto un assedio dal finale tragico per motivi del tutto ingiustificati. «Leggeremo le motivazioni e ricorreremo in Appello, questo è un nuovo caso Cucchi» dicono gli avvocati di parte civile. Per il difensore, Stefano Fratucello, il carabiniere temeva che Mauro stesse ammazzando il collega a terra (che ha riportato una ferita guarita in poche settimane ndr). Le motivazioni della sentenza si leggeranno tra 90 giorni.
17 dicembre 2018
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