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Giorgio Antonucci è morto nel novembre scorso. Aveva ottantaquattro anni. Nato a Lucca nel 1933, si era laureato in medicina, aveva scelto la strada della psicoanalisi e poi, presto, della psichiatria o, meglio, dell’ospedale psichiatrico, perché la psichiatria imperante, la psichiatria accademica della segregazione, della contenzione, dell’ elettroshock, la rifiutò sempre. Sicuramente era stimato da molti e forse amato, ma non raggiunse mai la notorietà di Franco Basaglia, più anziano di nove anni, soprattutto più “politico” e più strategico, più attento a costruire attorno a sé reti di alleanze e di solidarietà.
Alla sua morte, pochi hanno scritto di Antonucci e, se chiedi in giro, nessuno sa di lui. Raistoria ha presentato una sorta di docufilm, diretto da Alberto Cavallini, docufilm assai modesto nelle parti di fiction, dove ogni immagine ben poco poteva rappresentare della oscena condizione dei malati mentali, ma bellissimo quando la scena era lasciata a lui, Giorgio Antonucci, ormai anziano, intervistato nella sua casa di Firenze, narratore della sua esperienza di vita e di lavoro, dagli anni di scuola a quelli del manicomio, un vecchio con la nobiltà del vecchio e la saggezza che consente spazio alla ironia e all’autoironia.
Il film, o il docufilm come si usa dire, si apre con un esterno scuola. Due ragazzi se ne vanno. Nella sequenza successiva si entra in aula. Un’insegnante di lingue interroga un alunno chiedendogli la traduzione in inglese di una banale frasetta… Il ragazzo chino, in lacrime, cerca di rispondere, non risponde, balbetta qualcosa. L’insegnante lo rimprovera e insiste con la richiesta della traduzione. Silenzio ancora e a questo punto il tono del rimprovero si fa alto e aspro: “Sei una vergogna…”. Il ragazzo in lacrime torna al suo posto, deriso dai compagni. Dopo pochi secondi, un giovane si alza e si presenta alla scrivania. Fissa negli occhi l’insegnante: “No, lei non aveva il diritto di umiliare una persona, un mio compagno il cui unico delitto è stato quello di non aver studiato a sufficienza…”. Giorgio Antonucci, cominciava così, studente liceale, la sua battaglia in difesa dei diritti e della dignità degli uomini. In quel caso giovanile era un collega di studio, più avanti negli anni saranno i matti, rinchiusi, dimenticati, maltrattati, catalogati, schedati secondo tabelle che dovrebbero descrivere e incasellare la loro malattia, utili solo a giustificare la loro reclusione.
Quando il primo agosto 1973 entrò nell’Istituto psichiatrico “Osservanza” di Imola, chiamato da Edelweiss Cotti, un medico riformatore e un amico, scelse di assumere la direzione del reparto considerato “più difficile e pericoloso”, il reparto 14 delle “agitate”. Lo racconta così lo stesso Antonucci in un prezioso libro, edito da Eleuthera, “Il pregiudizio psichiatrico”: “I muri alti, le inferriate alle finestre, le porte di ferro, i vari settori dell’abitato separati e controllati, le celle con lo spioncino, i letti inchiodati al pavimento, erano le principali caratteristiche della struttura. Le quarantaquattro donne internate, tutte con diagnosi di schizofrenia, vivevano rinchiuse, isolate, legate, sorvegliate di continuo e sottoposte a tutti i trattamenti più brutali della psichiatria…
“Nel reparto 14, se si eccettuano la lobotomia e la lobectomia, erano in atto su ogni singola persona tutti gli interventi teorizzati dagli psichiatri, in modo per così dire concentrato. Esistevano mezzi di contenzione fisica di ogni genere, dalla camicia di forza alla maschera di plastica per impedire alle pazienti di sputare; venivano usati i tre fondamentali tipi di shock, vale a dire le iniezioni endovenose di acetilcolina secondo il metodo di Fiamberti, le applicazioni di elettroshock secondo il metodo di Cerletti, la provocazione di comi insulinici secondo il metodo di Sakel; si usavano tutti i tipi di psicofarmaci; si praticava l’alimentazione forzata; si tenevano le degenti e le infermiere continuamente soggiogate dai ricatti e dalla paura dei superiori gerarchici…”.
Antonucci non aspettò, fece da solo, cominciando a cavarsi di dosso il camice bianco dell’autorità e a slegare una per una quelle donne, a sollevarle dai loro letti quando non erano in grado di muoversi, la loro muscolatura divorata dall’immobilità obbligata, senza denti, persi a causa dell’elettroshock, senza un abito che non fosse il camicione sudicio, senza nulla attorno che restituisse una parvenza di normale esistenza e persino di un loro passato.
Chi era ritenuto malato di mente, all’ingresso in manicomio veniva privato dei suoi vestiti (nel piccolo museo di Santa Maria della Pietà, a Roma, in uno stanzone, sopra una scaffalatura di ferro, sono allineati sacchi di juta con una targhetta e un nome: conservano tutto ciò che l’internato possedeva, come i lugubri magazzini di Auschwitz in cui venivano stivati gli averi degli ebrei spogliati di tutto). Nelle camerate solo sbarre alle finestre: non esistevano comodini, gli specchi erano vietati. Antonucci (come Basaglia a Gorizia) restituì gli uni e gli altri, perché chiunque potesse conservare in un cassetto qualcosa di sè, una cartolina, una foto, una matita, e, specchiandosi, potesse riconoscersi e potesse riconquistare la propria immagine, sconosciuta magari da decenni.
Antonucci aprì porte, divelse inferriate, demolì muri: “Invitai – narr a in un altro libro, “Diario dal manicomio” – lo scenografo Luca Bramanti e altri artisti che venivano spesso a Imola da Firenze, da Bologna e da altre città, per dare forma e colore all’ambiente e cercai dappertutto abiti per vestire le persone come vestiamo noi…”. Restituì l’aria, la luce, il sole a quelle povere recluse, che giorno dopo giorno ritrovarono una sensazione almeno di libertà. Fu il caso di Teresa B. (descritto ancora nel primo libro che ho citato), “la persona più pericolosa del reparto… il mostro di Imola”. “Si trattava di cominciare a slegarla contro il parere dei medici. Anche se il reparto dipendeva da me, il medico al quale subentravo si ritirò subito. Le infermiere avevano paura… Ho trascorso un mese intero nel reparto, notte e giorno, perché nel reparto non c’era solo Teresa, c’erano quarantaquattro donne, di cui una trentina legate in continuazione, mentre le altre stavano slegate qualche ora al giorno. Così c’era anche tutto questo lavoro di legarle e slegarle”. Antonucci vuole altro che legare e slegare: “Dopo un mese ho consegnato alla direzione i mezzi di contenzione in un sacco accompagnato da un biglietto: questi strumenti di tortura devono uscire da un reparto ospedaliero”. “Sembra paradossale – annota Antonucci – il 14 è oggi il reparto forse più tranquillo dell’ospedale”. Teresa B. “talvolta va anche fuori, gira per Imola, ma non le interessa molto, anche se ci può andare quando vuole…”. Teresa B. era stata ricoverata a ventuno anni, dopo la nascita di una figlia. Teresa B. lavorava nei campi. Il parto l’aveva debilitata. Sarebbe stato sufficiente un po’ di riposo. Il medico l’affidò a uno psichiatra. “L’hanno presa e mandata al manicomio. Un primo ricovero a Bologna, dove è stata sottoposta a elettroshock e insulinoterapia, e il secondo a Imola, dove si trova da trentatré anni”.
Giorgio Antonucci, dopo la laurea, s’era formato come psicoanalista con Roberto Assagioli. La prima esperienza in un manicomio fu a Cividale del Friuli nel 1968. L’anno successivo sarà a Gorizia, dove incontrerà Franco Basaglia. Dal 1970 al 1972 dirigerà il centro di igiene mentale di Castelnovo ne’ Monti in provincia di Reggio Emilia, chiamato da Giovanni Jervis, con il quale entrò presto in contrasto: “Jervis ragionava in termini psichiatrici e di tutela dell’ordine pubblico e distingueva pertanto i casi gravi più pericolosi da internarsi, da quelli meno gravi e meno pericolosi da assistere a casa. Io invece ragionavo in termini di conflitto tra individuo e società, e di diritto dell’individuo ad essere rispettato nella sua libertà nel contesto di una società più aperta e meno intollerante…”. “Il nostro metodo era la discussione dettagliata e approfondita delle questioni, non solo con la persona interessata (dal pericolo dell’internamento), ma con tutti quelli che erano o potevano essere implicati nella situazione: i familiari, i datori di lavoro, i sindaci, i sindacati, i medici generici e quanti avevano rapporti importanti con la persona di cui ci occupavamo”. Nel 1973 l’arrivo a Imola, dove rimase fino al 1996…
Nel corso della sua lunga vicenda, Giorgio Antonucci incontrò molti avversari: i direttori dei manicomi, gli altri psichiatri, gli infermieri, gli amministratori pubblici, i sindacati. Capitò a lui quello che era capitato e sarebbe capitato ancora a molti altri: ostilità e incomprensione da tutti i versanti, destra e sinistra, difesa di privilegi, diffidenza, dimenticanza, indifferenza. La malattia mentale (o ciò che si riassume in quelle parole, malattia mentale) era e resta un’ombra che si cerca di tenere lontana da sé. La psichiatria corre in aiuto, segregando, allontanando alla vista, occultando, con l’arroganza di una disciplina che non certo le vittime sono in grado di contestare. Il manicomio, l’istituzione totale, si presta all’opera, diventa strumento. Antonucci rifiuta questa logica e giunge alle estreme conseguenze: “Ritengo che ha ben poco serva attaccare l’istituto del manicomio se non si porta un attacco radicale allo stesso giudizio psichiatrico che ne è alla base, mostrandone l’insussistenza scientifica. Finché non sarà abolito il giudizio psichiatrico, la realtà della segregazione continuerà a fiorire dentro e fuori le pareti del manicomio”. La sua critica alla psichiatria è radicale: una presunta scienza, che in realtà si vanta di poter etichettare sotto ambiziose e oscure definizioni poveracci, dimenticati, rivoltosi, quanti rifiutano modelli e riti della società dominante. Antonucci sta dalla parte dei deboli, di coloro che nel lavoro, nello studio, negli affetti non sanno accettare quei modelli o sono esclusi per povertà e cultura da quegli stessi modelli e diventano per questo casi clinici, distrutti dal pregiudizio psichiatrico. Antonucci non attende una legge, non aspetta regolamenti: procede da sé contro l’ingiustizia, giorno dopo giorno cerca la via del cambiamento, svela nella malattia le ragioni di classe e da queste comincia per contestare il manicomio.
Anche Antonucci si guadagnò la sua etichetta: antipsichiatrico, alla stregua di Cooper o di Laing, di Thomas Szasz o dello stesso Franco Basaglia, che rifiutò però sempre questo giudizio. Basaglia non negava la malattia mentale. La scrittrice Dacia Maraini, in una intervista del 1978, chiese a Antonucci in che cosa consistesse “questo metodo nuovo per quanto riguarda i cosiddetti malati psichici”. Antonucci rispose: “Per me significa che i malati mentali non esistono e la psichiatria va completamente eliminata”. I “malati mentali” sono persone, con i loro diritti, che non possono essere espropriati sulla base di una diagnosi psichiatrica, sono persone che esprimono bisogni e che il “dottore” deve ascoltare, per interloquire in un confronto alla pari. Lasciare il camice bianco era già il segno della rinuncia di una superiorità gerarchica. L’etica del dialogo contro la violenza imposta della coercizione…
Giorgio Antonucci fu tra quelli, non pochi, che dagli anni sessanta in avanti si batterono contro i manicomi, contro una psichiatria che usava i manicomi per marcare il proprio potere e contro, prima ancora, una società che aveva da tempo imparato ad usare la psichiatria a difesa di un proprio privilegio. Tra quelli ci furono, con Antonucci, altri come Sergio Piro, come Giovanni Jervis, come lo stesso Edelweiss Cotti, come ovviamente Franco Basaglia, protagonisti di una comune battaglia, se pure manifestando posizioni diverse, difendendo presupposti diversi, nella stagione attorno al Sessantotto, animata da una coscienza democratica e libertaria, per questo capace di puntare il dito contro le “istituzioni totali”, a cominciare dalla famiglia, continuando con la scuola o con la caserma, per finire appunto con manicomi.
C’è una condizione comune che lega quelle persone, non tanto gli studi psichiatrici, non tanto il teatro del loro operare, Trieste, Varese, Salerno o Imola, quanto la sorte di dover “toccare con mano”, di doversi misurare con la realtà, di dover soccorrere con i propri mezzi, giorno dopo giorno, senza poter rinviare, senza poter credere alla denuncia soltanto e senza poter attendere la soluzione dall’alto, anche quando una soluzione ci fu, la legge 180 approvata nel 1978 (pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro). Giorgio Antonucci di fronte alla tragedia delle donne di Imola legate ai loro letti, imbavagliate, condannate dall’elettroshock e dai farmaci, decise in un attimo che cosa si dovesse fare e lo fece senza esitare.
Giovanni Gozzini, nell’introduzione al libro che ho nominato all’inizio, alla prima riga scrive: “Questo libro parla di un argomento che non interessa a nessuno”. Si riferisce – precisa – alla “cosiddetta malattia mentale”. Ricordare Giorgio Antonucci significherebbe anche ricordare quanto ci debba invece interessare questo argomento, in un momento della nostra storia che va esattamente in senso opposto rispetto a qualche decennio fa, al decennio della legge 180 per esempio o di altre riforme, dal diritto di famiglia al lavoro. Anche la psichiatria del manicomio si gioca le carte della rivincita, non solo perché di tanto in tanto qualche parlamentare si presenta con la sua proposta di legge che inasprisce i termini del trattamento sanitario obbligatorio o perché la stessa applicazione della 180 s’è trascinata per le lunghe, ma anche perché la sanità pubblica ha concesso al privato sempre più spazio, più spazio anche al “manicomio privato”, altri luoghi di segregazione sotto le belle insegne di “Villa Azzurra” o di “Anni sereni”.
Dovrei dire ancora che Giorgio Antonucci amava la poesia e che ricevette, per il suo impegno in difesa dei diritti della persona il premio Thomas Szasz. Lo psichiatra statunitense scrisse di Antonucci: “Si può ritenerlo un buon psichiatra (qualunque sia il significato del termine): ed è vero. O lo si può ritenere un buon antipsichiatra (qualunque sia il significato del termine): ed è altrettanto vero. Io preferisco ritenerlo una persona come si deve che pone il rispetto per il cosiddetto malato mentale al di sopra del rispetto per la professione”.
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