a cura di Filippo Benfante
articolo originale su: http://storiamestre.it/2017/11/la-liberta-e-piu-salutare/
e pubblicato anche qui: http://www.isiciliani.it/ricordo-di-giorgio-antonucci/
e pubblicato anche qui: http://www.isiciliani.it/ricordo-di-giorgio-antonucci/
Sabato 18 novembre è morto a Firenze Giorgio Antonucci, un medico e
psicanalista che per più di vent’anni si è occupato di psichiatria
nelle istituzioni pubbliche. Lo ricordiamo ripubblicando una sua vecchia
intervista, realizzata da Filippo Benfante nel marzo 1999.
Nota. Giorgio Antonucci è un medico e psicanalista
fiorentino. Si è occupato per più di vent’anni di psichiatria nelle
istituzioni pubbliche. Ha iniziato nel 1968 a Cividale del Friuli, nel
primo reparto di ospedale civile pensato in alternativa agli
internamenti in manicomio. Nel 1969 ha lavorato a Gorizia, con Franco
Basaglia. Dal 1970 al 1972 ha svolto la sua attività a Reggio Emilia.
Infine è rimasto in servizio a Imola, sino a un paio di anni fa. Il
testo che segue è estratto da una conversazione durata quasi due ore.
Questa dovrebbe essere un’intervista, ma io non ho preparato delle
domande. Mi piacerebbe che fossi tu a parlare, magari cominciando dalle
tue prime esperienze in campo psichiatrico.
Nel 1965 ero laureato in medicina da appena due anni e facevo ancora
sostituzioni di medici condotti – i medici di base di adesso – che
andavano in ferie. Però avevo avuto sempre interesse per la psicologia.
Non per la psichiatria: anche all’università è stato un insegnamento che
ho seguito distrattamente. Ma per la psicologia il discorso è diverso.
Sapendo di questo mio interesse, un amico mi invitò a una riunione che
si teneva qui a Firenze presso l’istituto di “psicosintesi” del dott.
Assagioli. Assagioli è stato uno dei primi a parlare di psicanalisi in
Italia, dove la psicanalisi faceva ancora fatica a entrare, per
l’influenza della chiesa e del fascismo e per il carattere un po’ chiuso
della cultura italiana di quel tempo. Vedeva la psicologia in relazione
a tutte le qualità creative, in particolar modo in rapporto con la
mistica, tra l’altro era appassionato di filosofie orientali. Siccome io
non sono mistico, ebbi una discussione con lui; però poi mi fece
richiamare e mi disse che mi potevo occupare di problemi psicologici e
che anzi mi avrebbe mandato delle persone che si rivolgevano a lui. Mi
pareva un po’ azzardato, ma siccome insisteva, ci si mise d’accordo e
poi si stabilì un rapporto.
Lui aveva una concezione tutto sommato accettabile. Diceva che quando
si incontra una persona, per aiutarla a vivere meglio, bisogna stimolare
le sue capacità creative. Questo è il significato di “psicosintesi”. È
un’impostazione positiva, un suggerimento che ho seguito e mi è servito
molto.
Quando ho cominciato a occuparmi di queste faccende mi sono accorto che
mi capitavano persone di vario tipo, diversa cultura, vari modi di
pensare. Da lì bisognava partire: dal loro modo di pensare. Una persona
si costruisce con il suo pensiero, non col pensiero degli altri. Se una
persona viene a chiedere aiuto è perché ha bisogno di chiarimenti, ma
questi chiarimenti sono in rapporto con la sua personalità e la sua
personalità è una sorgente di creatività. Questo è già qualcosa che non
ha nulla a che fare con la psichiatria.
Lo psichiatra non pensa che la persona sia un soggetto creativo, pensa
che ci siano dei comportamenti che vanno bene e dei comportamenti che
vanno male, pensieri che vanno bene e pensieri che vanno male. Se pensa
che vanno male, inizia a distinguere tra comportamenti che in termini
generali si potrebbero dire “non saggi”, “non pertinenti” e questi
pensieri da lui giudicati non pertinenti implicano un ipotetico difetto
del cervello che sarebbe la malattia mentale. Adesso io l’ho fatta
breve, puoi procedere più lentamente, attraverso più passaggi, però
nella sostanza il procedimento è proprio questo.
Come ti sei comportato con queste persone conosciute da Assagioli?
Ti racconto di Elena, che frequentava il circolo di Assagioli perché si
interessava di misticismo orientale. La conobbi, ci feci amicizia, ci
incontravamo regolarmente. Lei mi parlava delle sue esperienze, per me
assolutamente nuove, dei mistici indiani, mi leggeva le poesie di
Tagore. Un giorno vado da Assagioli a fargli una visita di controllo
(gli facevo da medico). Arrivo durante una sua discussione
sull’opportunità di ricoverare Elena. Chiesi meravigliato i motivi di un
ricovero in clinica psichiatrica. Mi disse che Elena aveva dei momenti
in cui era presa da delirio persecutorio, diceva che i vicini la
perseguitavano, diventava nervosa, non riusciva a dormire, si
arrabbiava, si lamentava, telefonava continuamente. Elena aveva già
avuto tre ricoveri a Settignano, in una casa di cura per malattie
nervose e mentali, come si chiamavano, diretta da un dottore amico di
Assagioli, e questa volta non ci voleva proprio andare. Chiesi di
rinviare tutto di due settimane, dicendo che nel frattempo me ne sarei
occupato io. Andai a parlare con Elena, che mi raccontò disperata di
ricoveri fatti contro la sua volontà, con la forza praticamente, di
medicine e di come si sentiva sottoposta a una grandissima ingiustizia.
Lei stava alle Cure [un quartiere di Firenze], abitava da sola; i vicini
erano quasi tutti comunisti e lei che aveva un modo di pensare molto
diverso si sentiva già a disagio. Mi disse che non ce la faceva ad
andare avanti, perché i vicini le facevano dispetti. Io le dissi che ce
ne saremmo occupati insieme, parlai anche con i vicini, e vidi che
c’erano dei problemi. Lei, magari, essendo sola, esagerava, vedeva in
questi dissensi delle cose al di là di quel che succedeva, ma questo
capita. È una cosa normalissima. Per farla breve: non è stata più
ricoverata. Quando abbiamo iniziato a occuparci insieme degli affari
suoi, della sua vita, non ci sono più stati problemi.
Assagioli alla fin fine non lo faceva, ma io ne tenevo conto sul serio
della creatività e nella creatività ci sta anche il fatto di immaginarsi
delle cose che non sembrano corrispondere alla realtà, ma la realtà non
è fatta soltanto di una direzione sola. Noi non siamo fatti soltanto
della realtà immediata, ma anche della paura e dell’immaginazione per
cui si possono immaginare anche delle cose sbagliate, ma sbagliare non
significa avere un cervello che non funziona. Immaginare e sbagliare fa
parte della struttura fisiologica del cervello: il cervello indaga la
realtà facendo delle ipotesi, che a volte si verificano e a volte no.
In questa storia c’è già tutto quello che ho poi fatto negli anni
seguenti: il mio pensiero nei confronti delle persone e del mondo e il
risultato pratico è che questa persona in clinica psichiatrica non ci è
andata più.
Dalla storia di Elena, si capisce quanto sia importante il rapporto con una persona e la conoscenza della sua storia.
Sì, ma non basta. La conoscenza della storia può essere quella di certi
psicanalisti, la conoscenza della storia nel senso di andare a cercare
un difetto, l’evento che ha fatto deviare, che ha provocato un difetto
psicologico. Io mi sono confrontato con Elena e la sua realtà tenendo
conto della complessità del rapporto con questa realtà e del fatto che
complessità non significa difetto. Le teorie correnti sono due. Una è
quella degli psichiatri cosiddetti organicisti, che dice che quando una
persona non torna negli schemi che loro stessi creano, allora ha un
difetto organico, biochimico del cervello. L’altra teoria dice che il
difetto non è organico o biologico ma è un difetto nella storia della
persona. Io non ritengo di dover andare a trovare i difetti nelle
persone che vengono da me. Con una persona che viene da me devo cercare,
insieme, qual è il suo rapporto con la realtà e vedere qual è senza che
questo implichi che c’è un rapporto normale, sano, dei sani di menti, e
un rapporto anormale, malato, dei malati di mente. Per lo psichiatra
c’è un difetto fisico, per lo psicanalista c’è un difetto psicologico.
Questo riguarda anche Freud. Dopo la sua esperienza negli ospedali di
Parigi, ha detto: ho smesso di fare il medico e ho iniziato a fare il
biografo. Ma il problema è che le sue biografie sono pensate in cerca
del difetto. Io rifiuto questa idea del difetto, non vedo qual è il modo
di pensare e di essere giusto. Ci sono tanti modi di essere e di
pensare, e tante storie.
Possiamo dire allora che sono storie raccontate e ascoltate senza pregiudizio.
Esatto. C’è un pregiudizio fondamentale alla base sia della psichiatria
che della psicanalisi, ed è il determinismo: il fatto che si consideri
degli esseri umani come degli orologi, dei meccanismi. Nei comportamenti
vediamo degli effetti, che sono stati preceduti dalle cause. Un
approccio determinista è contraddittorio in sé, prima di tutto perché
non si possono mai vedere tutti gli elementi in gioco. Il determinista
quando fa l’esperimento isola certi elementi, crea artificialmente le
condizioni ideali, in caso contrario l’esperimento non riesce, anche nel
campo delle scienze cosiddette esatte. Ammettendo, senza concederlo,
che tutto quello che avviene a una persona sia dovuto a delle influenze
ben determinate, resta che sono talmente tante che uno non le vede mai
tutte, poi le dovrebbe interpretare. Il determinismo vale solo per
situazioni semplici, non per situazioni complesse.
Io non credo che le persone siano orologi o flipper. Le macchine si
possono guastare, le persone no. Ci sono secoli di filosofia che parlano
della libertà e della scelta dell’uomo. Le persone sono soggetti di
scelta, sentono responsabilità e colpa e non si considerano macchine. La
vita di una persona è fatta di scelte e di invenzioni continue. Ogni
persona è diversa dall’altra e ogni persona è anche diversa da se stessa
in ogni momento. Quando si incontra una persona non si incontra un
orologio da accomodare, ma una persona che si presenta attraverso le
proprie esperienze, le proprie scelte e con i propri problemi, quelli
che impediscono il realizzarsi delle proprie scelte. Questo è
psicologia: partire dai problemi, il resto è ciarlataneria.
Come si può conciliare la complessità delle persone con risposte
istituzionali, che vogliono essere rapide, “efficienti”, per forza
semplici?
È un lavoro difficile. Ci sono situazioni drammatiche, in cui i
conflitti sono grandi e urgenti. Le persone sono tutte complicate. Non a
caso la psichiatria è così potente e affermata: perché non si preoccupa
della complessità, offre una soluzione pratica e rapida. Se una ragazza
fa una vita che non piace ai genitori e questi non riescono a influire
nelle sue scelte in contraddizione con loro, lo psichiatra interviene e
semplifica. Prima limita psicologicamente la persona, definendo la
norma, cosa si può fare e cosa no; poi interviene chimicamente; se la
persona non si semplifica né con le prediche che loro chiamano
psicoterapia, né con le medicine, c’è il ricovero. Alla fine si
esercitano tutti gli strumenti di forza per costringere una personalità a
semplificarsi e a essere adatta quello che richiedono le istituzioni, a
cominciare dalla famiglia.
È chiaro che quando si discute con una persona creativa non puoi
smettere di tenere conto del mondo che c’è intorno, altrimenti non serve
a niente; però non puoi escludere nemmeno tutta l’altra parte del tuo
interlocutore. Quando vedo che le iniziative che possono facilmente
avere per risultato l’esclusione dalla società, allora non dico che la
persona ha torto o ha sbagliato, ma l’avviso, la metto in guardia, in
modo che la sua creatività non la porti in conflitto con la società:
essendo l’individuo più debole della struttura sociale, ne sarebbe
travolto. Si discute su questa base: io ho la mia creatività, i miei
pensieri, le mie scelte, il mondo è quello che è, allora adesso cosa
facciamo? Non sulla base di un difetto, ma sulla base realistica che
bisogna confrontarsi con quelli che ci stanno intorno, se no si rischia
di essere travolti.
Mi ha colpito la parola realismo. Mi sembra che sia facile, per chi
non lo condivide, accusare il tuo metodo di essere poco realista e poco
pratico: prevede risposte individuali, senza modelli o casistiche
prefabbricate.
Non c’è solo la praticità brutale di chi prende ogni persona che non
gli piace e la sbatte in manicomio oppure ne dà una definizione che la
taglia fuori dalla società civile. C’è anche la praticità che io ho
applicato assieme a Elena, la stessa che ho applicato per 23 anni al
manicomio di Imola, prendendo le persone che erano in camicia di forza e
portandole fuori. Io vengo dalla pratica: ho preso in mano degli
orribili reparti, con dentro rinchiuse persone definite schizofreniche,
considerate pericolose, incapaci di vivere nella società e le ho
riportate a vivere fuori.
La mia pratica sarà più complessa ma salva le persone e questo fa parte
dei compiti di un medico. La libertà è molto più salutare del
manicomio.
Le semplificazioni sembrano più realistiche, ma allora si potrebbe dire
allo stesso modo che una dittatura è più pratica di una democrazia, ma
non è un buon motivo per scegliere la dittatura e mutilare la ricchezza,
la varietà e la complessità di una democrazia. Io rivendico il realismo
del mio metodo. Che cosa c’entra mai il complesso di Edipo con una
persona? Sono gli psichiatri e gli psicanalisti, che riducono a schemi
astratti le persone, ad allontanarsi dalla realtà: non è realistico
pensare che ogni persona che non pensa come me è una persona sbagliata.
Non è realistico considerare che Van Gogh era uno schizofrenico, che
Michelangelo era un depresso, che Dante era un malinconico e altre
storie del genere. Non solo non è pratico, ma è anche culturalmente una
via che non conduce a nulla: se ai tempi di Dante ci fosse stato
l’elettrochoc, non avremmo la Divina Commedia.
Il vero problema è che il 90% delle persone pratica idee e modi della
psichiatria. Il restante 10% di cui faccio parte è circondato in modo
tale che la sua opera può essere demolita da un momento all’altro. Non è
un problema di praticità, è un problema di peso sociale. Se ci fosse un
movimento di carattere generale, i manicomi non ci sarebbero più.
La legge 180 del 1978, da tutti identificata con il nome di Franco Basaglia, ha chiuso i manicomi italiani.
Non è che chiudendo i manicomi e basta si risolva il problema. Non è un
bar che si chiude e vanno tutti via. Se non c’è una critica al pensiero
psichiatrico non serve a nulla. Dire che il manicomio fa male è una
banalità priva di significato, come dire che un campo di concentramento
non fa bene. Se si parte dal giudicare difettosa una persona che ha un
pensiero e un comportamento che non tornano con i propri schemi mentali,
si arriva comunque a una qualche forma di manicomio. Se si parte dal
considerare gli ebrei razza inferiore e pericolosa, si arriva a una
forma di campo di concentramento.
Basaglia va visto nella sua complessità. Intanto ha fatto un lavoro
utile: ha preso un manicomio e ha iniziato a smantellarlo, togliere le
camicie di forza, aprire le porte, discutere con gli internati, fare le
assemblee. È stato il primo che l’ha fatto e questo non si discute. E
poi aveva insistito su una cosa: proseguire sulla strada intrapresa, non
tornare mai più indietro. Ma questo implica anche la possibilità di
cominciare a pensare in un modo tutto nuovo.
Però Basaglia ha sempre rifiutato di prendere posizione, almeno
ufficialmente, su una critica radicale al pensiero psichiatrico, anche
se alcuni suoi spunti sembravano portare proprio a questo. Gli resta
senza dubbio l’intuizione: senza l’intuizione che le persone non sono
come la psichiatria le classifica, non avrebbe potuto fare quello che ha
fatto. Non sleghi delle persone se pensi che sono assurde e senza
nessun tipo di logica; le sleghi se pensi che sono persone come te, con
la loro complessità. Basaglia diceva anche di non classificare le
persone, ma chi lo ha seguito ha continuato a farlo. E si badi che qui
c’è il punto di convergenza tra psichiatria e razzismo. Si tratta di un
razzismo su base psicologica, meno brutale di quello su base genetica e
pertanto ancora più pericoloso, più facile a insinuare. Schizofrenico
non vuol dire nulla, come tutte le categorie che usa la psichiatria: non
spiega né modifica la persona a cui si applica. Serve solo a aggiungere
una nota negativa, un pregiudizio, una condizione di inferiorità
sociale: se mi presentano una persona come schizofrenico, so già che
devo stare in guardia.
I medici che sono venuti dopo Basaglia si sono ripiegati sul discorso
del manicomio da superare e le strutture alternative. È un discorso che
non significa nulla perché il manicomio può avere molte forme. La
struttura alternativa oggi è il “centro diagnosi e cura” degli ospedali
civili, dove si viene rinchiusi come in manicomio e vengono fatte le
stesse cose.
Se penso che tu sei una persona che a un certo punto non puoi più
decidere da sola, e io posso decidere per te, e ti devo portare in un
luogo per prendere le decisioni al tuo posto, il manicomio è fatto. Tu
non vuoi venire, allora chiamo le guardie e ti ci faccio portare; quando
sei lì non ci vuoi stare, allora chiudo la porta, se ti chiudo dentro
mi spacchi la stanza, allora ti lego al letto, oppure ti faccio la
puntura per stordirti e neutralizzarti, che è lo stesso.
Se parto dall’idea che una persona può essere presa con la forza perché
da sé non è capace di decidere. Inutile negare il manicomio senza
mettere in discussione il trattamento sanitario obbligatorio, come hanno
fatto gli allievi di Basaglia. Dove si mettono le persone con la forza?
Da qualche parte e quel “qualche parte” diventa manicomio, non importa
se è un vecchio edificio dell’Ottocento o un ospedale moderno.
Il fatto è che nessuno ha messo in discussione la disciplina, nessuno
si è interrogato sul senso dell’esistenza della psichiatria. Nessuno
chiede o si chiede che cosa vuol dire essere malato di mente.
Nota. Questo testo è stato pubblicato per la prima
volta sul numero 40 di “fuori binario giornale di strada dei senza
dimora” che tuttora esce a Firenze, grazie a Maria Pia Passigli e altri
volontari, sotto il titolo Psichiatria e creatività – intervista al
prof. Antonucci, a cura di Filippo Benfante (p. 10). L’occasione era
stata una lunga conversazione che avevo avuto con Giorgio Antonucci
presso la sua abitazione, a Firenze, in uno dei viali del Campo di Marte
che girano intorno allo stadio, il 23 marzo 1999. Era un incontro
organizzato dal nostro comune amico Piero Colacicchi.
Piero e Giorgio erano amici si può dire fraterni; non avevano mai
smesso di frequentarsi da quando si erano conosciuti nel 1967,
nell’ambito del laboratorio artistico “La Tinaia” creato nell’ospedale psichiatrico di San Salvi, a Firenze,
e poi avevano condiviso – con ruoli diversi – l’esperienza delle
“calate” sull’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, che abbiamo documentato anche sul nostro sito. Questa breve nota è anche un modo per riunirli ancora una volta.
Piero era arrivato a casa di Antonucci con un registratore e una
cassetta da 50 minuti, che non bastò; il testo finale rimonta parti
trascritte dalla registrazione e parti su cui avevo preso semplici
appunti su carta.
In vista della pubblicazione su “fuori binario”, discussi trascrizione integrale, appunti e versione finale con Piero Brunello e Luca Pes, con i quali avevo già ragionato delle questioni che pongono questo genere di lavori quando formavamo la redazione della rivista “Altrochemestre”.
A questi amici, il mio ringraziamento pubblico a distanza di quasi vent’anni. (f.b.)
In vista della pubblicazione su “fuori binario”, discussi trascrizione integrale, appunti e versione finale con Piero Brunello e Luca Pes, con i quali avevo già ragionato delle questioni che pongono questo genere di lavori quando formavamo la redazione della rivista “Altrochemestre”.
A questi amici, il mio ringraziamento pubblico a distanza di quasi vent’anni. (f.b.)
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