I due lati della porta dell' ex- manicomio di Imola dipinti di Giuseppe Tradii: http://www.cartedalegare.san.beniculturali.it |
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C. B.: Mi può parlare dell’esperienza che ha fatto a
Imola soprattutto per quanto riguarda la liberazione degli internati e
la pratica di autogestione all’interno dei reparti psichiatrici?
G. A.: Io sono arrivato a Imola, come ho già detto, su
richiesta di Edelweiss Cotti a cui era stata assegnata la direzione
dell’ospedale psichiatrico Osservanza di Imola, il quale riceveva tutti i
ricoveri della Romagna. Quando Cotti mi chiamò, io andai a visitare il
manicomio e tutti i suoi reparti e mi colpì specialmente il reparto
detto delle agitate donne, di fronte a quello degli agitati uomini.
Cotti era il direttore del manicomio e a livello teorico aveva delle
grandi qualità nella critica alla psichiatria visto che aveva letto
anche Thomas Szasz, però nella pratica non riusciva sempre a entrare in
rapporto con le persone. In quel periodo si ritrovava direttore di un
manicomio di milletrecento persone circa, ma nel quale lavoravano
quindici medici tutti tradizionalisti. Allora mi chiamò; da una parte,
ero appoggiato da Cotti ma, dall’altra parte, mi trovai contro tutti i
medici e tutti gli infermieri che sapevano che ero arrivato per cambiare
le cose.
Io decisi di fare un’azione che poteva sembrare troppo
incauta, perché scelsi di lavorare nel reparto che gli altri medici
consideravano il più pericoloso, il più difficile, il più pesante: il
reparto 14-donne detto delle “agitate”. Questo per dimostrare, una volta
che avessi finito di liberare le persone, che se ero riuscito a farlo
nel reparto più pericoloso, tanto più si poteva operare allo stesso modo
con le altre. Scelsi di partire dal più difficile per ottenere un
effetto sul resto dei medici; così, in riunione, chiesi agli psichiatri
di dirmi qual’era per loro il reparto più problematico e tutti mi
risposero il 14. É molto difficile da descrivere l’angoscia che provai
addentrandomi in questo reparto: si entrava da una porta di ferro, poi,
ti ritrovavi in un corridoio con delle porte molto spesse di legno e con
lo spioncino e da dentro le stanze si sentivano le urla delle internate
che erano tutte legate al letto. Le persone erano quindi chiuse in
cella e legate ai letti; ce n’erano anche alcune legate agli alberi,
fuori nel cortile. Si sentivano urla dappertutto, le infermiere giravano
con grossi mazzi di chiavi perché ovunque c’erano porte e barriere;
c’erano addirittura gli allarmi da azionare in caso di pericolo per
richiamare rinforzi. Era una situazione da campo di concentramento nel
senso più stretto della parola e non so ancora come queste persone
abbiano fatto a sopravvivere in quelle condizioni. C’erano
quarantaquattro donne legate ai letti, chiuse nelle rispettive celle e
con quattro o più farmaci addosso: tutte erano ridotte male dal punto di
vista fisico perché l’immobilità sommata agli psicofarmaci è nociva.
Alcune di queste donne avevano addirittura la maschera di plastica o di
cuoio:era una cosa orrenda. Dal punto di vista fisico le loro condizioni
erano preoccupanti; io, infatti non stavo affrontando un problema
soltanto di liberazione dall’internamento psichiatrico, ma anche il
problema difficile della difesa della salute perché le donne erano tutte
in condizioni drammatiche. Presentavano disturbi cardiaci, crisi
epilettiche, muscoli atrofizzati così io ho dovuto fare il medico nel
vero senso della parola perché le loro condizioni fisiche erano
tragiche. Ci tengo a dire questo perché a volte se ne dimenticano che,
accanto alla mia opera di liberazione, io ho fatto veramente il medico
come persona che si occupa dei danni e dei disturbi del corpo, delle
malattie provocate dall’immobilità e dall’intossicazione. Per cui ho
dovuto lavorare tantissimo, non solo per liberarle, ma anche per
rimetterle in salute. Se, dopo essere state liberate, sono andate a
Vienna, al carnevale di Venezia, al Parlamento Europeo, in udienza da
Giovanni Paolo II, è segno che anche dal punto di vista medico ho fatto
un buon lavoro perché all’inizio, quando le ho trovate, non erano in
grado neanche di camminare per cento metri: non si reggevano in piedi.
Per fare quest’opera di liberazione, ho cominciato a slegarle una per
volta e sono stato un mese in reparto, notte e giorno, senza andarmene,
con qualche momento di riposo passato sempre in reparto. Dovevo far
capire a queste persone quello che stavo facendo, perché le internate
avevano paura che io le slegassi per poi rilegarle in futuro come erano
abituate dagli psichiatri. Io, invece, dovevo dimostrare alle internate
che le avrei slegate definitivamente; d’altra parte si trattava di un
processo lungo e difficile perché queste donne avevano il terrore di
qualsiasi cosa. Mi trovavo in una situazione di grande diffidenza non
solo da parte delle internate, ma anche da parte di tutto il personale.
Fortunatamente trovai delle infermiere che mi avevano capito e che
cominciarono ad aiutarmi; d’altra parte il personale era diviso tra chi
mi voleva seguire e chi mi ostacolava. Era un pandemonio insomma.
All’inizio del mio lavoro, nel reparto, c’erano le persone ricoverate
che dovevano piano, piano, capire quello che stava succedendo, oltre al
personale medico che stentava a collaborare. In più gli altri medici,
appena mi allontanavo da Imola, scavalcavano il mio lavoro riportando la
situazione a come era prima che io arrivassi. Ho sempre cercato di fare
direttamente le cose in modo che le infermiere non dicessero che davo
ordini difficili e mi prendevo personalmente tutte le responsabilità.
Slegavo la persona con le mie mani, stavo lì, attento a eventuali
conseguenze pericolose. E a volte lo erano perché una persona che è
stata legata per tanto tempo, dopo, come minimo è arrabbiata. Dovevo
stare lì anche di notte perché la notte è un periodo critico. Per
esempio se una persona passava una notte inquieta e si ricordava che
prima la rinchiudevano o la legavano, io stavo accanto a lei tutta la
notte. Dopo un mese, quando le ebbi slegate tutte, presi tutti i mezzi
di contenzione, li misi in un sacco e lo consegnai a Cotti, il
direttore, accompagnato da un biglietto ironico che diceva: «Questi
strumenti di tortura devono uscire da un reparto ospedaliero». Perché
consegnarli? Perché fino a che si tengono lì, anche se non si usano,
hanno ancora una potenzialità terroristica. Io sono stato sempre
disponibile a discutere con le infermiere e le aiutavo in tutte le
difficoltà in cui si trovavano, ma non ero certamente disponibile a
discutere con loro se si dovevano slegare le persone o meno. Come quando
decisi che le inferriate andavano tolte perché questo posto doveva
diventare una residenza e non doveva più essere un carcere. Alcune
infermiere capirono per fortuna che stava succedendo qualcosa che
avrebbe migliorato non soltanto la condizione delle ricoverate, ma anche
la loro: avrebbero smesso di fare le carceriere e incominciato a fare
un lavoro diverso, di comunicazione umana. Gradualmente le condizioni
delle internate migliorarono: iniziarono di nuovo a camminare, a uscire
in giardino, a mangiare regolarmente. Prima che arrivassi io, quando non
volevano mangiare, le costringevano a farlo con la sonda: era un metodo
basato sulla forza. C’era anche un altro metodo allucinante detto
“della strozzina”: quando un’infermiera aveva paura che una persona
l’aggredisse, un’altra infermiera prendeva la persona in questione alle
spalle, le metteva attorno al collo un panno bagnato e lo strizzava
finché la persona cadeva in terra. Io tolsi ogni mezzo di coercizione
come ogni intervento autoritario. Ho un aneddoto da raccontare per
dimostrare questo. Una volta dovevo venire a Firenze e avevo
l’intenzione di partire verso le tre del pomeriggio, ma una persona del
reparto 14 si mise a sedere nella mia macchina e non se ne voleva
andare. Le infermiere dissero che l’avrebbero presa con la forza per
toglierla dalla macchina. Io mi opposi e partì alla sera tardi quando si
alzò: questo per dimostrare che io, degli interventi autoritari, non ne
volevo sapere. Piano, piano, era diminuita la violenza; prima il
personale picchiava continuamente le persone e naturalmente, nei reparti
psichiatrici, anche in quelli dove ho lavorato io, le violenze contro
le giovani donne erano una cosa all’ordine del giorno. Dove ci sono le
persone che non contano nulla, quelli che sono stati designati dalla
società per controllarli, ne abusano in tutti i modi. Cotti, vedendo il
risultato della liberazione, mi chiese di prendere un altro reparto.
Dopo il reparto 14, passai al 10 donne dove trovai una situazione molto
simile e perciò procedetti come per il 14. Poi andai al 17 uomini e
anche lì feci lo stesso lavoro. In seguito, la direzione dei due
manicomi di Imola diventò unica e io fui chiamato nell’altro manicomio,
il Lolli, dove arrivavano le persone da Bologna. Lì un po’ di lavoro era
stato fatto da un medico basagliano che mi aveva preceduto e, dal
momento che lui aveva stabilito assemblee con gli infermieri, il reparto
si chiamava Reparto autogestito. Io cercai anche qui di trasformare il
reparto in una residenza, in cui le persone avevano la chiave delle
proprie camere e potevano uscire quando lo ritenevano opportuno. Per
esempio, uno di loro, il pittore (http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2010/07/02/490/),
la sera andava a Bologna per divertirsi nei locali notturni. Io gli
dicevo soltanto che, se gli succedeva qualcosa, doveva avvisare così
potevamo essergli vicino. Vorrei aggiungere una cosa molto importante:
io non mi sono mai occupato del pensiero degli internati e cioè non mi
interessava se qualcuno pensava delle cose “sbagliate” su di sé. Io non
mi sono occupato di modificare il loro pensiero perché questa cosa è
una violenza e non mi sono mai permesso di far cambiare le idee a
qualcuno. Io mi sono occupato di rendere loro liberi e quindi anche
liberi di pensare ciò che vogliono. Anche ora, quando mi occupo di
evitare gli internamenti alle persone, non discuto con loro perché
cambino il loro pensiero. Piuttosto ci parlo di problemi pratici
relativi anche alla nostra differenza nel modo di affrontarli. Il
nocciolo della psichiatria è, invece, modificare il pensiero degli altri
con la forza. La libertà di pensiero non significa pensare certe cose e
altre no; anche nella storia della filosofia ci troviamo davanti ad un
orizzonte di idee differenti una dall’altra e spesso contrastanti. Per
me il problema è cominciato non come psichiatra o antipsichiatra, ma
dall’idea semplice che una persona ha diritto di pensare quello che
vuole senza che nessuno interferisca. Certamente si può discutere: per
esempio, se uno mi dice che si sente Carlo Magno io gli posso
controbattere che ho studiato la storia e che Carlo Magno è vissuto in
un’altra epoca; allora lui mi potrà ribadire che è una sua
reincarnazione e così via. Però, costringere una persona ad aderire a
quello che io ritengo vero è una forma di tirannide. Su questo mi trovo
d’accordo con Thomas Szasz che mi ha dato anche un premio in cui c’è scritto: « I problemi sociali scambiati per problemi
psichiatrici offrono illimitate possibilità di tirannide». Nel premio
che mi è stato dato, in particolare, c’è scritto: «Per gli eccezionali
contributi alla lotta contro lo stato terapeutico». Che cos’è lo stato
terapeutico? È quel tipo di Stato che, attraverso la medicina, vuole
controllare il pensiero delle persone.
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