Guadagnucci ha scritto un e-book, scaricabile gratuitamente, dal titolo “sTortura. Perché l’Italia non sa punire la tortura ed è incapace di una riforma democratica delle forze di polizia“
sTortura, perché l’Italia non sa punire la tortura
Lorenzo Guadagnucci ha scritto un e-book, scaricabile gratuitamente, dal titolo “sTortura. Perché l’Italia non sa punire la tortura ed è incapace di una riforma democratica delle forze di polizia“
A
che serve firmare (nel 1950) una Convenzione europa sui diritti umani e
le libertà fondamentali e promuovere la Corte chiamata a farla
rispettare? In teoria, a garantire e migliorare la tutela dei diritti
fondamentali, facendo ad esempio tesoro delle sentenze che la Corte
emette. In teoria, perché sono passati tre mesi dal servero giudizio
della Corte di Strasburgo sul “caso Diaz” (il 7 aprile) e il nostro
paese si sta facendo notare per inerzia.
Un’inerzia tanto più colpevole, in quanto il giudizio dei giudici di
Strasburgo è stato dirompente. I sette magistrati – all’unanimità –
hanno qualificato come “tortura” (e quindi violazione dell’articolo 3
della Convenzione) la cosiddetta perquisizione alla scuola Diaz (21
luglio 2001), giudicando l’Italia gravemente inadempiente nel suo
compito di garantire giustizia al cittadino Arnaldo Cestaro (uno dei 93
torturati) e di prevenire la ripetizione di abusi analoghi. Secondo la
Corte di Strasburgo, nella vicenda Diaz il nostro paese ha mostrato un
“deficit strutturale” nella sua capacità di affrontare un caso così
grave di abuso di potere.
Ce ne sarebbe abbastanza per sentirsi obbligati a compiere
un’operazione di verità su quel “deficit strutturale”, che riguarda sia
carenze normative, sia comportamenti tenuti in questi anni dai vertici
della polizia e del ministero degli Interni. La nostra polizia e il
nostro governo hanno invece scelto la via del minimalismo, con frasi
generiche sul “nuovo corso” che sarebbe stato avviato in questi anni e
con l’affermazione, da parte del presidente del consiglio, che la
risposta alla sentenza del 7 aprile è l’approvazione di una legge sulla
tortura. La sentenza della Corte in verità chiede ben di più, ad esempio
la rimozione degli agenti e funzionari condannati e l’obbligo per gli
agenti in servizio di ordine pubblico di indossare codici di
riconoscimento sulle divise. Quanto alla legge sulla tortura, attesa da
oltre 25 anni, da quando cioè l’Italia si impegnò in sede di Nazioni
Unite a introdurre una norma ad hoc nel codice penale, la Corte di
Strasburgo da tempo specifica, attraverso le sue sentenze, quali
caratteristiche dovrebbe avere e per quali finalità.
Diciamo che i pilastri di una buona legge sulla tortura sono tre: la
sua qualficazione come reato proprio del pubblico ufficiale; il divieto
di prescrizione; una definizione non troppo specifica, in modo che possa
includere comportamenti diversi e anche imprevedibili (il cosiddetto
reato di evento). La finalità, va da sé, dovrebbe essere soprattutto la
prevenzione, oltre all’ovvia necessità di offrire ai magistrati uno
strumento utile a punire in modo adeguato gli abusi.
Ebbene, la Camera dei deputati, appena due giorni dopo la sentenza di
Strasburgo (9 aprile) ha approvato una legge che manca tutti questi
obiettivi. Il reato è “generico”, cioè può essere commesso da chiunque e
prevede solo un’aggravante per il pubblico ufficiale; la prescrizione è
possibile; la definizione è così dettagliata che secondo giuristi e
magistrati competenti alcuni casi della nostra storia recente
(Aldrovandi, Cucchi, Mastrogiovanni e lo stesso caso Diaz) non sarebbero
compresi.
Un paradosso, frutto di un altro “deficit strutturale”, ossia
l’incapacità del potere politico di svolgere il proprio ruolo di
indirizzo e di controllo rispetto alle forze dell’ordine. Il “partito
della polizia”, storicamente contrario all’esistenza stessa di una legge
sulla tortura, è riuscito a imporre il suo punto di vista e a svuotare
di senso un testo che si ispirava, nella sua versione iniziale (firmata
dal senatore Luigi Manconi), alla definizione data dalla Comvenzione
dell’Onu contro la tortura.
Il testo è ora tornato al Senato ed è stato oggetto di nuove critiche
da parte del “partito della polizia”, in un gioco delle parti che non
promette niente di buono. Il capo della polizia Alessandro Pansa,
durante un’audizione informale a Palazzo Madama, si è scagliato contro
il testo uscito dalla Camera, sostenendo che si è puntato il il dito
contro le forze di polizia, criminalizzandole ingiustamente. Accuse del
tutto immotivate, viste le scelte compiute nella redazione dei vari
articoli, ma utili a suscitare una nuova bagarre e ulteriori cautele
nelle forze politiche. Ha poi preso la scena il Sap, sindacato noto per
gli appalusi tributati durante un suo congresso agli agenti condannati
per l’uccisione di Federico Aldrovandi: prima l’acquisto di pagine
pubblicitarie su alcuni giornali per contestare un testo di legge
giudicato punitivo e destinato a “legare le mani” agli agenti, poi una
manifestazione di piazza spalleggiata dai vertici politici della Lega
Nord, nelle persone di Matteo Salvini e Roberto Maroni.
Dall’altra parte c’è il deserto. Ossia il silenzio delle forze
politiche parlamentari democratiche e di sinistra, intimorite
dall’offensiva del “partito della polizia”, e il silenzio, o addirittura
la pressione affinché sia approvato in fretta il testo uscito da
Montecitorio, di associazioni come Antigone e Amnesty International,
paralizzate dalla logica “meglio una legge mediocre che nessuna legge”.
Colpisce che il fronte dell’esplicito rifiuto del testo di legge in
discussione riunisca soggetti come il Comitato Verità e Giustizia per
Genova, i familiari di Stefano Cucchi, il pm nel processo Diaz Enrico
Zucca, il giudice del processo d’appello per Bolzaneto Roberto Settembre
(autore dell’importante libro “Gridavano e piangevano”). I torturati e i
“tecnici” che hanno dovuto affrontare casi di tortura dicono no, ma
nessuno li ascolta.
Perché? Perché di polizia non si può parlare. L’argomento –
politicamente parlando – è tabù e alle forze dell’ordine è riconosciuto
un diritto di veto sulle decisioni che le riguardano. Il senatore
Manconi, in un recente intervento, ha spiegato che i gruppi parlamentari
hanno paura delle forze di polizia: “È come se la classe politica”, ha
scritto, “non si fidasse della lealtà delle polizie, dubitasse della
loro dipendenza in via esclusiva dalla legge, ne temesse le reazioni
incontrollate”.
Perciò una discussione vera sulla sentenza della Corte di Strasburgo
non è nemmeno cominciata; perciò può accadere che il capo della polizia e
il ministro dell’Interno chiedano al Guardasigilli di avviare di
un’azione disciplinare contro il pm Zucca, reo di avere ribadito in
pubblico (qui il video da non perdere ) i gravi appunti messi nero su
bianco dai giudici europei.
Gli scenari possibili a questo punto sono due. Il primo: la legge
viene approvata con leggeri cambiamenti e nel gioco delle parti si potrà
dire – con grande ipocrisia – che il parlamento ha legiferato con
coraggio nonostante l’ostilità serpeggiante nelle forze di polizia. Il
secondo: la legge rimane nel cassetto. E’ per l’ironia che accompagna
certi passaggi poco limpidi della nostra vita pubblica, che proprio noi –
il Comitato Verità e Giustizia per Genova – che la tortura l’abbiamo
vista in faccia e che una legge la invochiamo dal 2001, speriamo a
questo punto che la “mediocre legge” venga accantonata. Solo così la
partita rimarrebbe aperta.
Bene farebbe il parlamento a prendersi la responsabilità di
riconoscere di non essere in grado di approvare una buona legge sulla
tortura. Abbiamo aspettato tanto, aspetteremo ancora, lottando per
ottenere quel che serve: una vera legge sulla tortura; una discussione
seria sul disagio mostrato dalle nostre forze dell’ordine rispetto agli
standard internazionali in materia di garanzie, trasparenza, correzione
dei propri errori; una riforma democratica degli apparati di sicurezza.
Nessun commento:
Posta un commento