fotografia dal sito http://www.mindbodyhealthpolitics.org/robert-whitaker-anatomy-of-an-epidemic.htm |
Robert Whitaker *
19 Rockingham St., Cambridge, MA 02139 USA
tradotto da Paola Marangon per "Osservatorio Italiano Salute Mentale" www.oism.info
da: Medical Hypotheses (2004) 62, 5-13
http://intl.elsevierhealth.com/journals/mehy
http://intl.elsevierhealth.com/journals/mehy
Sintesi. Sebbene la terapia standard per i
pazienti schizofrenici nei paesi industrializzati consista nella
somministrazione di farmaci neurolettici, questa prassi non è
corroborata dalla ricerca condotta sull’uso di tali farmaci in un
periodo di 50 anni. Un’analisi critica rivela che questo paradigma di
cura aggrava gli esiti a lungo termine, almeno nei dati aggregati, e che
il 40% o più dei pazienti schizofrenici se la caverebbe meglio senza
l’uso di tali farmaci. Una terapia basata sulle evidenze dovrebbe
prevedere l’impiego selettivo di farmaci antipsicotici, sulla base di
due principi: (a) nessuna somministrazione immediata di neurolettici ai
pazienti al primo episodio di crisi; (b) possibilità per ogni paziente
stabilizzato con neurolettici di sospendere gradualmente l’assunzione
dei farmaci. Questo modello aumenterebbe drasticamente i tassi di
recupero e ridurrebbe la percentuale di casi in cui la malattia diventa
cronica.
© 2003 Elsevier Ltd. Tutti i diritti riservati.
Robert Whitaker* è autore di "Mad in America: Bad Science, Bad
Medicine, and the Enduring Mistreatment of the Mentally Ill" (Perseus
Publishing, 2002) [ndt: vedi recensione in No!Pazzia].
Tel. +617-499-4354. E-mail: robber.b.whitaker@verizon.net (R. Whitaker).
Tel. +617-499-4354. E-mail: robber.b.whitaker@verizon.net (R. Whitaker).
Introduzione
La terapia standard per la schizofrenia prevede la somministrazione a tempo indeterminato di farmaci antipsicotici. I dati a sostegno di questa prassi sono tratti da ricerche che ne dimostrano l’efficacia nel trattamento dei sintomi psicotici acuti e nella prevenzione delle ricadute [1, 2]. Gli storici affermano inoltre che l’introduzione dei farmaci neurolettici negli anni ’50 permise di svuotare gli ospedali psichiatrici e che questa sia un’ulteriore dimostrazione dei meriti dei farmaci [3]. Tuttavia, a lungo termine, i risultati nella cura della schizofrenia rimangono scarsi e forse non sono migliori rispetto a 100 anni fa, quando le terapie a base di acqua e aria fresca costituivano il trattamento standard dell’epoca [4-7].
Sussiste un paradosso evidente nei dati forniti dalla ricerca. L’efficacia dei neurolettici sembra essere accertata, ma mancano dati in grado di confermare che tali farmaci abbiano migliorato la vita dei pazienti nel lungo periodo. Questo paradosso di recente ha incoraggiato la pubblicazione di un insolito editoriale in Eur. Psychiatry, nel quale si solleva la questione: “Dopo 50 anni d’impiego di farmaci neurolettici, siamo in grado di rispondere a questa semplice domanda: i neurolettici sono efficaci nel trattamento della schizofrenia?” [8]. Un attento esame della letteratura in materia fornisce una risposta sorprendente: secondo la grande maggioranza dei dati, la terapia standard attuale – terapia farmacologia continuativa per tutti i pazienti con tale diagnosi – reca più danni che benefici.
La terapia standard per la schizofrenia prevede la somministrazione a tempo indeterminato di farmaci antipsicotici. I dati a sostegno di questa prassi sono tratti da ricerche che ne dimostrano l’efficacia nel trattamento dei sintomi psicotici acuti e nella prevenzione delle ricadute [1, 2]. Gli storici affermano inoltre che l’introduzione dei farmaci neurolettici negli anni ’50 permise di svuotare gli ospedali psichiatrici e che questa sia un’ulteriore dimostrazione dei meriti dei farmaci [3]. Tuttavia, a lungo termine, i risultati nella cura della schizofrenia rimangono scarsi e forse non sono migliori rispetto a 100 anni fa, quando le terapie a base di acqua e aria fresca costituivano il trattamento standard dell’epoca [4-7].
Sussiste un paradosso evidente nei dati forniti dalla ricerca. L’efficacia dei neurolettici sembra essere accertata, ma mancano dati in grado di confermare che tali farmaci abbiano migliorato la vita dei pazienti nel lungo periodo. Questo paradosso di recente ha incoraggiato la pubblicazione di un insolito editoriale in Eur. Psychiatry, nel quale si solleva la questione: “Dopo 50 anni d’impiego di farmaci neurolettici, siamo in grado di rispondere a questa semplice domanda: i neurolettici sono efficaci nel trattamento della schizofrenia?” [8]. Un attento esame della letteratura in materia fornisce una risposta sorprendente: secondo la grande maggioranza dei dati, la terapia standard attuale – terapia farmacologia continuativa per tutti i pazienti con tale diagnosi – reca più danni che benefici.
I neurolettici hanno permesso la deistituzionalizzazione?
La convinzione che l’introduzione della clorpromazina, commercializzata negli Stati Uniti come “Thorazine”, permise di svuotare gli ospedali psichiatrici pubblici deriva dalla ricerca condotta da Brill e Patton. Nei primi anni ’60, essi riferirono che il numero di pazienti ricoverati presso ospedali psichiatrici pubblici negli Stati Uniti era diminuito da 558.600 nel 1955 a 528.800 nel 1961. Pur senza eseguire un confronto tra i tassi di dimissione dei pazienti trattati con farmaci e trattati con placebo, i due ricercatori conclusero che i neurolettici dovevano avere svolto un ruolo in tale diminuzione, in quanto essa coincideva con la loro introduzione. Il fatto che le due cose si fossero verificate contemporaneamente fu considerato come una prova [9, 10]. Tuttavia, erano presenti chiari elementi di perplessità. Nei primi anni ’50, il Council of State Governments degli Stati Uniti esortò il governo federale a condividere l’onere fiscale delle cure prestate a persone affette da disturbi mentali e propose di “ampliare le strutture ambulatoriali e sviluppare altre risorse a livello locale per la cura di persone bisognose di aiuto, senza ospedalizzazione” [11, 12]. Nell’ambito di questo programma, i singoli Stati cominciarono a sviluppare iniziative di assistenza a livello locale e a indirizzare le persone affette da disturbi mentali verso case di cura e strutture comunitarie. Questo cambiamento di politica sociale può facilmente essere stato responsabile del lieve calo del numero di pazienti osservato da Brill e Patton. Inoltre, uno Stato non eseguì un confronto tra i tassi di dimissione dei pazienti schizofrenici trattati con e senza farmaci e isuoi risultati non confermano l’attestazione storica dell’efficacia dei neurolettici. In uno studio condotto su 1.413 uomini al primo episodio di schizofrenia, ricoverati presso gli ospedali della California nel 1956 e 1957, i ricercatori constatarono che “i pazienti trattati con farmaci tendono ad avere periodi di ospedalizzazione più lunghi… inoltre, gli ospedali in cui una più alta percentuale di pazienti schizofrenici al primo ricovero è trattata con questi farmaci tendono a presentare tassi di degenza alquanto più elevati per questo gruppo considerato nel suo insieme”. In breve, la ricerca condotta in california concluse che, anziché accelerare il ritorno dei pazienti alla vita sociale, i neurolettici videntemente ostacolavano il recupero [13].
Il vero processo di deistituzionalizzazione negli Stati Uniti si verificò nel periodo compreso tra il 1963 e la fine degli anni ’70, con l’esodo dei pazienti indotto dalle politiche sociali e fiscali. Nel 1963, il governo federale cominciò a farsi carico di parte dei costi di assistenza per le persone affette da disturbi mentali non ricoverate in istituti pubblici e due anni dopo le cosiddette leggi Medicare e Medicaid aumentarono i finanziamenti federali per la cura dei pazienti psichiatrici, purché non fossero ricoverati in ospedali pubblici. Ovviamente, i singoli Stati risposero trasferendo i pazienti ospedalizzati in case di cura e ricoveri privati. Nel 1972, una modifica della legge in materia di sicurezza sociale autorizzò il versamento di un’indennità di malattia alle persone affette da disturbi mentali, il che accelerò il trasferimento dei pazienti ospedalizzati in strutture private. In conseguenza di queste modifiche delle politiche fiscali, nell’arco di 15 anni (1963-1978) il numero di pazienti ricoverati presso gli ospedali psichiatrici pubblici diminuì da 504.600 a 153.544 [14].
Accertare l’efficacia: lo studio fondamentale condotto dal NIMH
Lo studio tuttora citato a riprova dell’efficacia dei neurolettici nel contenimento degli episodi acuti di schizofrenia fu condotto dal National Institute of Mental Health (NIMH) su 344 pazienti ricoverati presso nove ospedali nei primi anni ’60. Al termine di sei settimane, il 75% dei pazienti trattati con farmaci era “migliorato molto” o “migliorato moltissimo”, contro il 23% dei pazienti trattati con placebo. I ricercatori conclusero che i farmaci neurolettici non dovevano più essere considerati semplici “tranquillanti”, bensì “antischizofrenici”. A quanto pareva, era stato trovato un farmaco ad alta specificità per questo disturbo devastante [1].
Tuttavia, tre anni dopo, i ricercatori del NIMH pubblicarono i risultati ottenuti su un periodo di un anno. Con grande sorpresa, riscontrarono che “i pazienti trattati con placebo erano meno soggetti a riospedalizzazione rispetto a quelli cui era stata somministrata una delle tre fenotiazine attive [15]. Questa constatazione rivelava una possibilità sconcertante: i farmaci erano efficaci nel breve periodo, ma forse creavano una maggiore vulnerabilità biologica alle psicosi nel lungo periodo, determinando tassi di riospedalizzazione più elevati nell’arco di un anno.
Gli studi del NIMH sulla sospensione della terapia farmacologica
In seguito a questa relazione allarmante, il NIMH condusse due studi sulla sospensione dei farmaci. In ciascuno di essi, i tassi di ricaduta aumentavano in rapporto al dosaggio di neurolettici somministrato prima della sospensione. In due prove, solo il 7% dei pazienti trattati con placebo ebbe una ricaduta durante i sei mesi successivi. Il 23% dei pazienti cui erano stati somministrati meno di 300 mg di clorpromazina al giorno ebbe una ricaduta in seguito alla sospensione; il tasso saliva al 54% per i pazienti cui erano stati somministrati da 300 a 500 mg e al 65% per i pazienti trattati con dosaggi superiori a 500 mg. I ricercatori conclusero: “Si è riscontrato un nesso significativo tra ricaduta e dosaggio dei tranquillanti assunti dal paziente prima di passare al placebo: quanto più alto il dosaggio, tanto maggiore la probabilità di ricaduta” [16].
Ancora una volta, i risultati inducevano a ritenere che i neurolettici aumentassero la vulnerabilità biologica dei pazienti alle psicosi. Altre relazioni ben presto acuirono questo dubbio. Anche quando i pazienti seguivano in modo affidabile la terapia, la ricaduta era frequente e nel 1976 i ricercatori riferirono che “la ricaduta durante la terapia farmacologia sembra essere più grave rispetto ai casi in cui non si fa ricorso ai farmaci” [17]. Anche uno studio retrospettivo condotto da Bockoven rivelò che i farmaci determinavano una cronicizzazione dei disturbi psichici. Riferì che il 45% dei pazienti trattati presso il Boston Psychopathic Hospital nel 1947 con un approccio terapeutico progressivo non ebbe ricadute nei cinque anni successivi alla dimissione e al termine di questo periodo di follow-up il 76% conduceva una vita sociale regolare. Per contro, solo il 31% dei pazienti trattati con neurolettici nel 1967 presso un centro sanitario locale non ebbe ricadute nei cinque anni successivi e, come gruppo, i pazienti erano molto più “dipendente dalla società” – percepivano un sussidio o necessitavano di altre forme di sostegno –rispetto a quelli nella coorte del 1947 [18].
Terapia farmacologica e forme di trattamento sperimentali
Con l’intensificarsi del dibattito sui pregi dei neurolettici, il NIMH riesaminò la questione se i pazienti schizofrenici al primo ricovero potessero essere curati con successo senza ricorrere a farmaci. Durante gli anni ’70, furono condotti tre studi finanziati dal NIMH in cui si prese in considerazione questa possibilità e in ciascuno caso i pazienti al primo ricovero curati senza farmaci ottennero migliori risultati rispetto a quelli sottoposti a terapie tradizionali (nota1).
Nel 1977, Carpenter riferì che, nella sua ricerca, solo il 35% dei pazienti cui non erano stati somministrati farmaci ebbe una ricaduta entro l’anno successivo alla dimissione, contro il 45% dei pazienti trattati con neurolettici. Inoltre, i pazienti che non avevano assunto farmaci soffrivano meno di depressione, ottundimento della vita affettiva e ritardo motorio [20]. Un anno dopo, Rappaport e al. [21] riferirono che, in uno studio condotto su 80 giovani schizofrenici di sesso maschile ricoverati in un ospedale pubblico, solo il 27% dei pazienti trattati senza neurolettici ebbe una ricaduta nei tre anni successivi alla dimissione, contro il 62% del gruppo trattato con farmaci.
L’ultimo studio fu condotto da Mosher, responsabile della ricerca sulla schizofrenia presso il NIMH. Nel 1979, riferì che i pazienti trattati senza neurolettici presso una struttura sperimentale gestita da non professionisti presentavano tassi di ricaduta inferiori in un periodo di due anni rispetto a un gruppo di controllo trattato con farmaci presso un ospedale. Come negli altri studi, anche Mosher riferì che il gruppo dei pazienti curati senza farmaci era quello che aveva conseguito i risultati migliori [22, 23].
Tutti e tre gli studi suggerivano la stessa conclusione: l’esposizione ai neurolettici aumentava l’incidenza a lungo termine delle ricadute. Il gruppo di Carpenter definì il dilemma:
È fuori dubbio che i pazienti sottoposti a terapia farmacologica sono meno vulnerabili alle ricadute se continuano ad assumere neurolettici. Tuttavia, che cosa succederebbe se sin dall’inizio a questi pazienti non fossero somministrati farmaci?... Avanziamo l’ipotesi che i farmaci antipsicotici possano rendere alcuni pazienti schizofrenici più vulnerabili a ricadute future, rispetto a ciò che avverrebbe nel normale decorso della malattia [20].
Alla fine degli anni ’70, due medici presso la McGill University
di Montreal, Guy Chouinard e Barry Jones, fornirono una spiegazione
biologica del fenomeno. Il cervello risponde ai neurolettici – che
bloccano il 70-90% dei recettori D2 della dopamina presenti nel cervello
– come se fossero un insulto patologico. Per supplire allo scompenso,
le cellule cerebrali dopaminergiche aumentano la densità dei loro
recettori D2 del 30% o più. Il cervello è ora “supersensibile” alla
dopamina, un neurotrasmettitore cui è attribuito il ruolo di mediatore
delle psicosi. La persona diventa biologicamente più vulnerabile alle
psicosi ed è esposta a un rischio particolarmente elevato di ricaduta in
caso di brusca sospensione della terapia farmacologica. I due
ricercatori canadesi conclusero:
I neurolettici possono produrre una supersensibilità alla dopamina, che determina lo sviluppo di sintomi discinetici e psicotici. Una conseguenza è che, in un paziente che ha sviluppato tale supersensibilità, la tendenza alla ricaduta psicotica non è determinata solo dal normale decorso della malattia… la necessità di trattamento neurolettico continuativo può essere indotta dai farmaci stessi [24, 25].
Nell’insieme, i vari studi forniscono un quadro persuasivo di
come i neurolettici abbiano determinato uno scostamento dei risultati
dal pieno recupero. Lo studio retrospettivo di Bockoven e gli altri
esperimenti inducono tutti a ritenere che, con un’esposizione minima o
nulla ai neurolettici, almeno il 40% delle persone che hanno avuto una
crisi psicotica con diagnosi di schizofrenia non avrebbe ricadute in
seguito alla dimissione dall’ospedale e forse fino al 65% si
rivelerebbero ben adattate nel lungo periodo. Tuttavia, diversa è la
sorte dei pazienti al primo episodio di crisi trattati con neurolettici.
I loro cervelli subiscono alterazioni indotte dai farmaci che acuiscono
la loro vulnerabilità biologica alle psicosi, la quale a sua volta
aumenta la probabilità che la patologia diventi cronica.
(nota 1): Nei primi anni ’60, May condusse uno
studio in cui mise a confronto cinque forme di trattamento: farmaci,
terapia elettroconvulsiva, psicoterapia, psicoterapia associata a
farmaci e terapia contestuale (Milieu Therapy). Nel breve periodo, i
pazienti trattati con farmaci ottennero i risultati migliori. Di
conseguenza, lo studio finì per essere citato a riprova del fatto che i
pazienti schizofrenici non potevano essere curati con la psicoterapia.
Tuttavia, i risultati a lungo termine presentavano maggiori sfumature.
Il 59% dei pazienti inizialmente trattati con terapia contestuale senza
farmaci furono dimessi con successo nel periodo iniziale dello studio e
questo gruppo “durante il
periodo di follow-up presentò capacità funzionali almeno altrettanto bene, se non meglio, dei successi ottenuti con altri trattamenti”. Lo studio di May lasciava quindi supporre che la maggioranza dei pazienti al primo episodio di crisi se la sarebbe cavata meglio nel lungo periodo se fosse stata inizialmente sottoposta a “terapia contestuale” anziché a
trattamento farmacologico [19].)
periodo di follow-up presentò capacità funzionali almeno altrettanto bene, se non meglio, dei successi ottenuti con altri trattamenti”. Lo studio di May lasciava quindi supporre che la maggioranza dei pazienti al primo episodio di crisi se la sarebbe cavata meglio nel lungo periodo se fosse stata inizialmente sottoposta a “terapia contestuale” anziché a
trattamento farmacologico [19].)
Gli studi dell’Organizzazione mondiale della sanità
Nel 1969, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) avviò uno studio inteso a confrontare i risultati ottenuti nella cura della schizofrenia nei paesi “sviluppati” e nei paesi “sottosviluppati”. Ancora una volta, il risultato fu sorprendente. Ai controlli di follow-up effettuati a distanza di due e cinque anni, i pazienti nei tre paesi poveri – India, Nigeria e Colombia – se la cavavano decisamente meglio dei pazienti negli Stati Uniti e in altri quattro paesi sviluppati. Avevano maggiori probabilità di essere completamente guariti e cavarsela bene nella società – “un esito sociale straordinariamente positivo caratterizzava questi pazienti”, scrissero i ricercatori dell’OMS – e solo una piccola minoranza manifestava sintomi cronici. A distanza di cinque anni, circa il 64% dei pazienti nei paesi poveri non presentava sintomi e si rivelava ben adattata. Per contro, solo il 18% dei pazienti nei paesi ricchi rientrava nella categoria di risultati migliori. La discrepanza tra i risultati fu tale da indurre i ricercatori dell’OMS a concludere che vivere in un paese industrializzato era un “forte fattore predittivo” dell’impossibilità di piena guarigione di un paziente schizofrenico [26].
Queste conclusioni ovviamente irritarono gli psichiatri negli Stati Uniti e in altri paesi ricchi. Di fronte a risultati così scoraggianti, molti sostennero che lo studio dell’OMS era viziato e che diversi pazienti nei paesi poveri probabilmente non erano schizofrenici, ma affetti da una forma di psicosi più leggera. Alla luce di queste critiche, l’OMS condusse uno studio inteso a confrontare i risultati su un periodo di due anni in 10 paesi, concentrandosi su pazienti al primo episodio di schizofrenia, diagnosticata secondo i criteri occidentali. I risultati furono identici. “La constatazione di risultati migliori nei pazienti dei paesi in via di sviluppo è stata confermata”, scrissero i ricercatori dell’OMS. Nei paesi poveri, l’esito fu positivo per il 63% dei pazienti schizofrenici e solo poco più di un terzo subì una cronicizzazione della malattia. Nei paesi ricchi, il rapporto tra esiti positivi e negativi era praticamente opposto. Solo nel 37% dei casi l’esito fu positivo e i rimanenti pazienti non se la cavarono altrettanto bene [27].
I ricercatori dell’OMS non individuarono una causa per la forte disparità tra i risultati. Tuttavia, rilevarono una differenza tra le cure mediche prestate. Al contrario dei medici nei paesi ricchi, in genere i medici nei paesi poveri non prescrivevano neurolettici ai loro pazienti. Nei paesi poveri, solo il 16% dei pazienti era trattato con neurolettici. Nei paesi sviluppati, tali farmaci erano prescritti al 61% dei pazienti. Ancora una volta, la ricerca forniva gli stessi risultati. Negli studi dell’OMS, si evidenziava una correlazione tra uso continuativo dei farmaci e scarsi risultati a lungo termine.
Studi basati sull’imaging a risonanza magnetica (MRI)
La maggioranza dei ricercatori ha usato imaging a risonanza magnetica (MRI) per studiare le possibili cause della schizofrenia, ma solo pochi hanno usato questa tecnologia per studiare gli effetti dei neurolettici sul cervello. Questi ultimi hanno riscontrato che tali farmaci causano atrofia della corteccia cerebrale e un allargamento dei gangli basali [28-30]. Inoltre, nel 1998 i ricercatori della University of Pennsylvania riferirono che l’allargamento dei gangli basali indotto da farmaci è “associato a un aggravamento dei sintomi sia negativi sia positivi” [31]. In altre parole, constatarono che i farmaci provocano alterazioni cerebrali associate a un peggioramento degli stessi sintomi che dovrebbero alleviare.
Studi sulle ricadute
Come già rilevato, si afferma che la prova dell’efficacia dei neurolettici sia duplice. Innanzi tutto, lo studio condotto dal NIMH negli anni ’60 rivelò che i neurolettici sono più efficaci del placebo per contenere gli episodi acuti di psicosi. In secondo luogo, fu dimostrato che i farmaci prevengono le ricadute. Nel 1995, Gilbert esaminò 66 studi sulle ricadute, riguardanti 4365 pazienti, e riassunse i dati collettivi: il 53% dei pazienti cui era stato sospeso il trattamento con neurolettici ebbe una ricaduta entro i 10 mesi successivi, contro il 16% dei pazienti che avevano proseguito la terapia. “L’efficacia di questi farmaci nel ridurre il rischio di ricadute psicotiche è ben documentato”, scrisse la ricercatrice [2].
A prima vista, questa conclusione sembra contraddire la ricerca secondo cui i farmaci determinano una cronicizzazione della malattia. Esiste una risposta a questo enigma, tuttavia, ed è significativa. Gli studi di Rappaport, Mosher e Carpenter riguardavano pazienti non sottoposti a terapia con neurolettici all’inizio dell’esperimento e successivamente trattati con placebo o neurolettici. In tali studi, i tassi di ricaduta erano inferiori per il gruppo placebo. Per contro, i 66 studi esaminati da Gilbert erano studi sulla sospensione dei farmaci. Negli studi analizzati dalla ricercatrice, i pazienti precedentemente stabilizzati con neurolettici erano stati suddivisi in due coorti: una avrebbe continuato ad assumere i farmaci e l’altra avrebbe sospeso il trattamento. Gli studi riscontrarono con un buon grado di attendibilità che i pazienti che avevano sospeso la terapia con neurolettici erano più soggetti a ricadute.
La letteratura induce quindi a ritenere che i tassi di ricaduta rientrino in tre categorie: più bassi per i pazienti cui non sono somministrati neurolettici, superiori per quelli che seguono una terapia continuativa e i più alti in assoluto per i pazienti che sospendono la terapia. Tuttavia, anche questo quadro è ingannevole. In primo luogo, per la maggior parte, gli studi sulla sospensione dei farmaci sono stati condotti su un gruppo selezionato di soggetti che rispondevano bene ai neurolettici, anziché sulla popolazione generale di pazienti. Nel mondo reale, fino al 30% dei pazienti ospedalizzati non risponde ai neurolettici. Tra quelli che sono sensibili ai farmaci e sono dimessi dall’ospedale, più di un terzo subisce una ricaduta entro i 12 mesi successivi e deve essere riospedalizzato, anche se assume regolarmente i farmaci. Pertanto, meno del 50% delle persone che manifestano sintomi di schizofrenia risponde ai normali neurolettici e non subisce ricadute per un periodo di un anno, ma gli studi sulle ricadute sono stati in larga misura condotti su questo gruppo di pazienti che risponde bene alla terapia. Nel 1998, Hogarty rilevò come questo modello di studio fornisca un’interpretazione errata dei tassi reali di ricaduta con i farmaci antipsicotici: “Una rivalutazione della letteratura rivela un tasso di ricaduta post-ospedaliera nell’arco di un anno del 40% con la somministrazione di farmaci e un tasso notevolmente più elevato per i pazienti che vivono in ambienti esposti a stress, rispetto alle precedenti stime del 16%” [32]. Al tempo stesso, gli studi sulle ricadute erano progettati in modo da esagerare il rischio di ricaduta nei gruppi che sospendevano la terapia farmacologica.
In risposta a Gilbert, Baldessarini rianalizzò gli stessi 66 studi, ma divise la coorte della sospensione dei farmaci in due gruppi: “sospensione brusca” e “sospensione graduale”. Constatò che, nel gruppo “sospensione brusca”, il tasso di ricaduta era tre volte superiore a quello nel gruppo “sospensione graduale” [33]. In altre parole, era l’interruzione brusca a causare gran parte del rischio maggiore di ricaduta. Infatti, in un nuovo esame della letteratura sulle ricadute, Baldessarini constatò che solo un terzo dei pazienti schizofrenici cui era stata gradualmente sospesa la terapia farmacologica aveva avuto una ricaduta nei sei mesi successivi, mentre quelli che avevano raggiunto il termine dei sei mesi senza riammalarsi avevano buone probabilità di rimanere sani a tempo indeterminato. “Il rischio di ricaduta successiva era molto limitato”, concluse [34].
Gli studi sulle ricadute sono citati a sostegno di un modello terapeutico che pone l’accento sul trattamento farmacologico continuo per i pazienti schizofrenici. Tuttavia, a un più attento esame, emerge un nuovo quadro. Nel mondo reale, il tasso di ricaduta durante il primo anno per i pazienti sottoposti a terapia continuativa con neurolettici è indicato al 40%, mentre il tasso per i pazienti che sospendono gradualmente la terapia è del 33%. Di conseguenza, se si ignora il modello di studio inadeguato, gli argomenti a sostegno di una terapia farmacologica continuativa vengono meno. Al tempo stesso, i dati sembrano dimostrare che la maggioranza dei pazienti – due terzi negli studi sulla sospensione graduale – possano stare abbastanza bene senza farmaci.
Più danni che benefici
Anche se questo sguardo retrospettivo ai neurolettici può sembrare sorprendente, i dati della ricerca di fatto sono molto coerenti. Lo studio fondamentale del NIMH nei primi anni ’60 riscontrò che i farmaci offrivano benefici a breve termine, ma a lungo termine i pazienti sottoposti a terapia farmacologica presentavano tassi di ricaduta più elevati. Analogamente, nel suo studio retrospettivo, Bockoven individuò maggiori probabilità di cronicizzazione della patologia per i pazienti trattati con neurolettici. Gli esperimenti di Carpenter, Mosher e Rappaport rivelarono tutti tassi di ricaduta più elevati per i pazienti trattati con farmaci e nel 1979 i ricercatori canadesi elaborarono una spiegazione biologica del fenomeno. L’Organizzazione mondiale della sanità riscontrò tassi di guarigione più elevati nei paesi poveri, dove i pazienti non erano sottoposti a regolare trattamento farmacologico. Infine, gli studi basati sulla risonanza magnetica, condotti dai ricercatori della University of Pennsylvania, fornirono una conferma persuasiva del problema della cronicità indotta da farmaci. Il trattamento farmacologico provocava un’alterazione cerebrale patologica, associata a un peggioramento dei sintomi: questo è un esempio convincente di causa ed effetto. Pertanto, la preponderanza dei dati indica che i normali neurolettici, nel lungo periodo, aumentano le probabilità di cronicizzazione della malattia. Questa conclusione è particolarmente problematica, se si considera che i farmaci causano anche un’intera serie di effetti collaterali preoccupanti, tra cui sindrome maligna da neurolettici, sintomi parkinsoniani e discinesia tardiva. I pazienti che assumono normali neurolettici sono anche esposti al rischio di cecità, trombosi fatali, gonfiamento delle mammelle, galattorrea (secrezione di latte), impotenza, obesità, disfunzioni sessuali, discrasie ematiche (alterazione della formazione e composizione del sangue), eruzioni cutanee dolorose, crisi epilettiche, diabete e morte precoce [35-40]. Se si tiene conto di tutti questi fattori, è difficile concludere che i normali neurolettici sono neutrali sotto il profilo terapeutico. La ricerca rivela anzi che essi recano danni, e i dati sono coerenti in quasi 50 anni di ricerca. [Cfr. “Cronologia”, Appendice A.]
Anche se questo sguardo retrospettivo ai neurolettici può sembrare sorprendente, i dati della ricerca di fatto sono molto coerenti. Lo studio fondamentale del NIMH nei primi anni ’60 riscontrò che i farmaci offrivano benefici a breve termine, ma a lungo termine i pazienti sottoposti a terapia farmacologica presentavano tassi di ricaduta più elevati. Analogamente, nel suo studio retrospettivo, Bockoven individuò maggiori probabilità di cronicizzazione della patologia per i pazienti trattati con neurolettici. Gli esperimenti di Carpenter, Mosher e Rappaport rivelarono tutti tassi di ricaduta più elevati per i pazienti trattati con farmaci e nel 1979 i ricercatori canadesi elaborarono una spiegazione biologica del fenomeno. L’Organizzazione mondiale della sanità riscontrò tassi di guarigione più elevati nei paesi poveri, dove i pazienti non erano sottoposti a regolare trattamento farmacologico. Infine, gli studi basati sulla risonanza magnetica, condotti dai ricercatori della University of Pennsylvania, fornirono una conferma persuasiva del problema della cronicità indotta da farmaci. Il trattamento farmacologico provocava un’alterazione cerebrale patologica, associata a un peggioramento dei sintomi: questo è un esempio convincente di causa ed effetto. Pertanto, la preponderanza dei dati indica che i normali neurolettici, nel lungo periodo, aumentano le probabilità di cronicizzazione della malattia. Questa conclusione è particolarmente problematica, se si considera che i farmaci causano anche un’intera serie di effetti collaterali preoccupanti, tra cui sindrome maligna da neurolettici, sintomi parkinsoniani e discinesia tardiva. I pazienti che assumono normali neurolettici sono anche esposti al rischio di cecità, trombosi fatali, gonfiamento delle mammelle, galattorrea (secrezione di latte), impotenza, obesità, disfunzioni sessuali, discrasie ematiche (alterazione della formazione e composizione del sangue), eruzioni cutanee dolorose, crisi epilettiche, diabete e morte precoce [35-40]. Se si tiene conto di tutti questi fattori, è difficile concludere che i normali neurolettici sono neutrali sotto il profilo terapeutico. La ricerca rivela anzi che essi recano danni, e i dati sono coerenti in quasi 50 anni di ricerca. [Cfr. “Cronologia”, Appendice A.]
Un modello migliore: l’uso selettivo dei neurolettici
Come minimo, questa rassegna storica rivela che il modello migliore di trattamento prevede un uso selettivo dei neurolettici e l’obiettivo è minimizzarne l’impiego. Diversi ricercatori in Europa hanno sviluppato programmi basati su tale obiettivo e in tutti i casi hanno ottenuto buoni risultati. In Svizzera, Ciompi creò una struttura sul modello del progetto Soteria di Mosher e nel 1992 concluse che i pazienti al primo episodio di crisi trattati senza farmaci o con dosaggi molto bassi di farmaci “dimostravano risultati notevolmente migliori” rispetto ai pazienti sottoposti a trattamenti tradizionali [41]. In Svezia, Cullberg riferì che il 55% dei pazienti al primo episodio di crisi inseriti in un programma sperimentale aveva positivamente sospeso la terapia con neurolettici al termine di un periodo di tre anni e gli altri continuavano ad assumere dosi estremamente basse di clorpromazina. Inoltre, durante il periodo di follow-up, i pazienti sottoposti a questa terapia trascorsero meno giorni in ospedale rispetto a quelli sottoposti a trattamento tradizionale [42, 43].
Lehtinen e i suoi colleghi in Finlandia dispongono ora di risultati relativi a un periodo di cinque anni, tratti da uno studio riguardante il trattamento di pazienti al primo episodio di crisi senza neurolettici durante le prime tre settimane e il successivo inizio della terapia farmacologica solo se “assolutamente necessario”. Alla fine del periodo quinquennale, il 37% del gruppo sperimentale non era mai stato esposto a neurolettici e l’88% non era mai stato riospedalizzato durante il periodo di followup di due e cinque anni [44, 45].
Questi risultati sono di gran lunga migliori di tutti quelli conseguiti negli Stati Uniti seguendo il normale modello di trattamento farmacologico continuativo. Infatti, nella sua meta-analisi di tali studi sperimentali, John Bola, della University of Southern California, concluse che la maggior parte “dimostra migliori risultati a lungo termine per i soggetti non sottoposti a terapia farmacologica” [23].
Atipici: gli albori di una nuova era?
Va ammesso che i risultati insoddisfacenti nel lungo periodo esaminati in questa sede sono stati prodotti dai neurolettici. I risultati insoddisfacenti potrebbero anche riflettere prassi di prescrizione in uso negli Stati Uniti che, sino alla fine degli anni ’80, prevedevano la somministrazione di dosaggi elevati. Non sono ancora disponibili dati relativi alla ricerca sul lungo periodo per la clozapina e altri antipsicotici atipici, come il risperidone e l’olanzapina. È auspicabile che questi farmaci più recenti producano risultati migliori, ma vi sono motivi per essere scettici al riguardo. Come è ora ampiamente riconosciuto, gli esperimenti clinici con gli antipsicotici atipici sono viziati da una progettazione basata sui vecchi farmaci e non esistono quindi prove convincenti del fatto che quelli nuovi siano effettivamente migliori [46].
Se il rischio di discinesia tardiva può essere ridotto con gli atipici, essi introducono una serie di nuovi problemi, quali un rischio maggiore di obesità, iperglicemia, diabete e pancreatine [47-49]. Nell’insieme, questi effetti collaterali sollevano il dubbio che gli atipici di regola provochino disfunzioni metaboliche e che il loro impiego nel lungo periodo provochi quindi una morte precoce.
È stato altresì dimostrato che, come i neurolettici precedenti, anche gli atipici determinano un aumento dei recettori D2 e si ritiene che sia proprio questo meccanismo ad aumentare la vulnerabilità biologica alle psicosi neipazienti sottoposti a trattamento farmacologico [50].
Conclusioni
La storia della medicina è ricca di esempi di terapie adottate con entusiasmo per un certo periodo e poi abbandonate perché nocive. Un esame scientifico dei dati disponibili dovrebbe oggi salvarci da tale follia. La scienza ha infatti fornito dati scientifici atti a orientare le prassi prescrittive. I dati rivelano in termini coerenti che il trattamento continuativo dei pazienti schizofrenici con antipsicotici nel lungo periodo produce risultati insoddisfacenti e un vasto gruppo di pazienti – almeno il 40% delle persone con una diagnosi di schizofrenia – starebbe meglio se non fosse mai stato esposto a neurolettici o, in alternativa, fosse incoraggiato a sospendere gradualmente i farmaci. (La percentuale di pazienti affetti da disturbi schizoaffettivi o da forme più leggere di psicosi che potrebbero stare bene senza farmaci di sicuro è di gran lunga maggiore.)
Questa conclusione del resto non è nuova. Quasi 25 anni fa, Jonathan Cole, uno dei pionieri della psicofarmacologia, pubblicò un documento dal titolo provocatorio: “Terapia di mantenimento con antipsicotici: la cura è peggiore della malattia?”. Dopo aver esaminato i dati scientifici, concluse che “si dovrebbe compiere un tentativo per determinare la possibilità di sospendere il trattamento farmacologico in ogni paziente”[17]. I dati avvaloravano un modello di trattamento che comportasse la sospensione graduale dei farmaci. I risultati della ricerca condotta in seguito sui neurolettici – segnatamente gli studi dell’OMS e gli studi basati sulla risonanza magnetica dei
ricercatori della University of Pennsylvania – confermano la saggezza di tale raccomandazione. Infatti, secondo lo studio sul lungo periodo condotto da Harding, la sospensione graduale è un passo essenziale del percorso verso la piena guarigione. La ricercatrice riscontrò che un terzo dei pazienti schizofrenici ricoverati in un ospedale pubblico del Vermont alla fine degli anni ’50 era completamente guarito 30 anni dopo e che i pazienti di questo gruppo avevano una sola caratteristica comune: avevano tutti smesso da molto tempo di assumere neurolettici [51]. Concluse che era un “mito” quello secondo cui i pazienti devono assumere farmaci tutta la vita e che “in realtà la percentuale di persone che hanno bisogno di assumere farmaci a tempo indeterminato potrebbe essere irrisoria” [52].
Tuttavia, nonostante tutti i dati disponibili, oggigiorno non è praticamente in corso alcun dibattito nell’ambito della psichiatria sull’adozione di prassi che prevedano l’uso selettivo dei neurolettici e introducano la graduale sospensione dei farmaci nel modello di trattamento. La psichiatria si muove invece nella direzione opposta e prescrive antipsicotici a un numero sempre maggiore di pazienti, compresi quelli considerati semplicemente “a rischio” di schizofrenia. Se questa espansione dell’uso di antipsicotici favorisce ovvi interessi finanziari, di sicuro il trattamento nuoce a molte persone.
Appendice A
Cronologia
Fase preclinica
1883 Sviluppo delle fenotiazine come coloranti sintetici.
1934 Il ministero dell’Agricoltura USA sviluppa le fenotiazine come insetticidi.
1949 Si riscontra che le fenotiazine ostacolano la capacità di arrampicarsi su una corda nei
ratti
1050 La Rhone Poulenc sintetizza la clorpromazina, una fenotiazina, per l’uso come
anestico
Fase clinica / normali neurolettici
1954 Si riscontra che la clorpromazina, commercializzata negli Stati Uniti come Thorazine,
induce sintomi parkinsoniani
1955 Si afferma che la clorpromazina provochi sintomi analoghi a quelli dell’encefalite
letargica
1959 Prime segnalazioni di disfunzioni motorie permanenti legate ai neurolettici, successivamente denominate discinesia tardiva
1960 I medici francesi descrivono una reazione tossica potenzialmente fatale ai neurolettici, successivamente denominata sindrome maligna da neurolettici
1962 Il Servizio di igiene mentale della California accerta che la clorpromazina e altri neurolettici prolungano l’ospedalizzazione
1963 Uno studio del NIMH della durata di sei settimane conclude che i neurolettici sono farmaci “antischizofrenici” sicuri ed efficaci
1964 Si constata che i neurolettici riducono la capacità di apprendimento negli animali e
negli uomini
1965 Il follow-up a un anno dallo studio del NIMH riscontra che i pazienti trattati con farmaci hanno maggiori probabilità di essere riospedalizzati rispetto a quelli trattati con placebo
1968 In uno studio sulla sospensione dei farmaci, il NIMH riscontra che i tassi di ricaduta aumentano in funzione del dosaggio. Quanto più alta è la dose somministrata ai pazienti prima della sospensione, tanto più alto è il tasso di ricaduta
1972 Si afferma che la discinesia tardiva sia simile al morbo di Huntington, o “danno cerebrale post-encefalico”
1974 Ricercatori di Boston riferiscono che i tassi di ricaduta erano inferiori nell’epoca precedente i neurolettici e che i pazienti sottoposti a trattamento farmacologico hanno maggiori probabilità di dipendere dalla società
1977 Uno studio del NIMH che randomizza i pazienti schizofrenici in categorie farmaci e non farmaci riferisce che solo il 35% dei pazienti non sottoposti a trattamento farmacologico ha una ricaduta entro un anno dalla dimissione, rispetto al 45% di quelli trattati con farmaci
1978 Il ricercatore californiano Maurice Rappaport riferisce risultati significativamente migliori su un periodo di tre anni per i pazienti trattati senza neurolettici. Solo il 27% dei pazienti non sottoposti a trattamento farmacologico ebbe una ricaduta nei tre anni successivi alla dimissione, rispetto al 62% dei pazienti trattati con farmaci
1978 Ricercatori canadesi descrivono alterazioni cerebrali indotte da farmaci che aumentano la vulnerabilità dei pazienti alle ricadute e le denominano “psicosi supersensibili indotte da neurolettici”
1978 Si riscontra che i neurolettici provocano una perdita cellulare del 10% nel cervello dei ratti.
1979 Si riferisce che l’incidenza della discinesia tardiva nei pazienti sottoposti a trattamento farmacologico è compresa tra il 24% e il 56%
1979 Si riscontra che la discinesia tardiva è associata a riduzioni delle capacità cognitive
1979 Loren Mosher, responsabile della ricerca sulla schizofrenia presso il NIMH, riferisce
risultati migliori su un periodo di uno e due anni per i pazienti del progetto Soteria trattati senza neurolettici
1980 I ricercatori del NIMH riscontrano un maggiore “effetto di ottundimento” e “ritiro emotivo” nei pazienti trattati con farmaci che non hanno ricadute e che i neurolettici non migliorano le “capacità sociali e di ruolo” nei pazienti che non hanno ricadute
1982 Si riferisce che i farmaci anticolinergici usati per trattare i sintomi parkinsoniani indotti da neurolettici provocano danni alle capacità cognitive
1985 Si individua una relazione tra acatisia indotta da farmaci e suicidio
1985 La casistica collega l’acatisia indotta da farmaci agli omicidi violenti
1987 La discinesia tardiva è collegata a un peggioramento dei sintomi negativi, difficoltà di
deambulazione, impedimenti nel parlare, deperimento psicosociale e deficit di
memoria. Concludono che può trattarsi di una patologia motoria che causa demenza.
1992 L’Organizzazione mondiale della sanità riferisce che i risultati nel trattamento della
schizofrenia sono di gran lunga migliori nei paesi poveri, dove solo il 16% dei pazienti
è sottoposto a regolare trattamento con neurolettici. L’OMS conclude che vivere in un
paese sviluppato è un “forte fattore predittivo” dell’impossibilità di piena guarigione
del paziente.
1992 I ricercatori riconoscono che i neurolettici provocano una patologia riconoscibile, che denominano sindrome da deficienza indotta da neurolettici. Oltre a sintomi parkinsoniani, acatisia, ottundimento della vita affettiva e discinesia tardiva, i pazienti trattati con neurolettici sono anche esposti a una maggiore incidenza di cecità, grumi di sangue fatali, aritmia, termoplegia, ginecomastia, galattorrea, impotenza, obesità, disfunzioni sessuali, discrasie ematiche, eruzioni cutanee, crisi epilettiche e morte precoce.
1994 Si riscontra che i neurolettici provocano un aumento del volume del nucleo caudato
nel cervello.
1994 I ricercatori di Harvard riferiscono che i risultati nel trattamento della schizofrenia
negli Stati Uniti sembrano essere peggiorati negli ultimi 20 anni e non sono migliori di
quelli ottenuti nei primi decenni del XX secolo.
1995 Si afferma che, nel “mondo reale”, i tassi di ricaduta tra i pazienti schizofrenici trattati con neurolettici siano superiori all’80% nei due anni successivi alla dimissione dall’ospedale, di gran lunga superiori rispetto all’era precedente ai neurolettici
1995 Si riferisce che la “qualità della vita” dei pazienti trattati con farmaci sia “molto bassa”
1998 Gli studi basati sulla risonanza magnetica dimostrano che i neurolettici provocano ipertrofia del nucleo caudato, del putamen e del talamo e che l’aumento è “associato a un aggravamento dei sintomi sia negativi sia positivi”.
1998 Si riscontra che l’uso di neurolettici è associato ad atrofia della corteccia cerebrale.
1998 I ricercatori di Harvard concludono che lo “stress ossidante” potrebbe essere il processo attraverso il quale i neurolettici provocano danni cerebrali.
1998 Si riscontra che il trattamento con due o più neurolettici aumenta il rischio di morte
precoce.
2000 Si evidenzia un nesso tra neurolettici e grumi di sangue fatali.
2003 Si evidenzia un nesso tra atipici e un maggiore rischio di obesità, iperglicemia, diabete e pancreatine
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