Thomas Szasz
LA MIA FOLLIA MI HA SALVATO
La follia e il matrimonio di Virginia Woolf
Traduzione, introduzione e cura di Susan Petrilli
ed. SPIRALI
Follia e psichiatria. La critica di Thomas Szasz al mito della malattia mentale
di Susan Petrilli
“La psichiatria non è medicina, ma attività poliziesca”
Presentazione
L'itinerario di una donna, scrittrice e editrice, e l'infelice
relazione con il marito Leonard, fino al tragico epilogo
Thomas Szasz racconta, in modo analitico, appassionato e avvincente,
la vita di Virginia Woolf, dall'infanzia fino al tragico epilogo.
L'autore è qui a un tempo analista e scrittore: una duplice disposizione
all'ascolto che gli consente di cogliere i lati meno appariscenti della
personalità di Virginia, in diretto e aperto contrasto con il discorso
dominante, dalla critica letteraria alla psichiatria.
Della scrittrice inglese, Thomas Szasz ricostruisce la vita privata
nei suoi rapporti con il padre, l'ambiente familiare, gli amici, i
personaggi del circolo di Bloomsbury, e con il marito Leonard. Proprio
di Leonard Woolf sono esaminati e descritti nei minimi dettagli il
carattere, il modo di "sentirsi ebreo", l'attività editoriale (pubblicò
le opere di Virginia e divenne editore ufficiale di Sigmund Freud), la
"filosofia", le aspirazioni, le idee sociali e politiche, le
idiosincrasie, l'ossessiva e ossessionante dedizione alla moglie.
Il rapporto con quest'uomo ebbe un ruolo determinante in tutte le
scelte di Virginia, nelle sue gioie e nelle sue sofferenze, nella sua
scrittura, nei suoi rapporti privati e pubblici, nel modo ambiguo di
vivere la propria "follia" e nelle relazioni con coloro che ebbero
l'incarico di gestirla. Un romanzo che non è racconto di fantasia, ma
l'affascinante ricostruzione della storia di una delle più
rivoluzionarie scrittrici del secolo scorso.
* * *
Questo libro offre un’analisi critica del
mito della “malattia mentale”, ma anche, più in generale, della grammatica
della vita quotidiana, del mondo così com’è, della vita nella sua articolazione
in ruoli sulla base della logica dell’identità chiusa, pronta a sacrificare
l’altro, a espungere l’altro — i ruoli collegati con l’identità sessuale,
l’appartenenza, la funzionalità. Thomas S. Szasz critica non soltanto la
psichiatria con la sua vocazione alla sorveglianza e al controllo sociale, ma anche i luoghi comuni di cui
essa si serve e che impediscono l’incontro con l’altro, l’ascolto,
l’accoglienza. Lungo tutto il percorso, sia teorico sia pratico, egli tende
all’ascolto dell’altro, ascolto che è cosa ben diversa dal “voler sentire”
istituzionale, un ascolto al di là dei ruoli e delle identità, volto a dare
voce e ospitalità alla singolarità di ciascuno.
In particolare, con questo
libro, “La mia follia mi ha
salvato”, Szasz si propone
di liberare Virginia Woolf dai luoghi comuni che la riducono a vittima della
malattia mentale. “La mia follia mi ha salvato” è quanto Virginia dichiara in
una lettera del 1924 al pittore e amico Jacques Raverat. Ma se di “follia”
dobbiamo parlare nel caso di Virginia, si tratta, nell’analisi di Szasz, del
rifiuto di mettere in comunicazione le varie parti di sé e di far dialogare tra
loro i suoi molteplici io. Invece di cercare una condizione di ascolto e di
accoglienza nei confronti delle differenti sfere della sua vita, Virginia
sceglie di tenerle distinte e separate. La maschera di “donna maritata” e di
“genio folle”, luoghi comuni a cui Virginia avrebbe volutamente fatto ricorso,
diventa realtà, al punto che, secondo Szasz, ella si uccise non certo perché
fosse veramente folle, ma semplicemente perché “voleva mettere fine alla sua
vita”, potremmo dire per stanchezza e disillusione.
Biografia di Szasz
Thomas Stephen Szasz (Szász Tamás István) è
nato a Budapest il 15 aprile 1920, il secondo di due fratelli, da una famiglia
di classe medioalta e di livello culturale elevato. La madre, molto bella,
affabile, elegante, che “Tomi” amava molto, si dedicò all’organizzazione
domestica e alla famiglia. Morì nel 1990, all’età di novantasei anni. Il padre,
laureato in giurisprudenza, svolse la professione di uomo d’affari nel campo
dell’agricoltura. Szasz lo descrive come un uomo severo, buono, generoso,
affidabile e mentalmente aperto. Era interessato all’economia, alla politica,
ma la passione più grande era la famiglia: adorava la moglie. Il matrimonio era
“estremamente armonioso — idilliaco”, merito che Szasz attribuisce ai genitori,
ma anche al carattere tradizionale del rapporto tra i ruoli di marito e di
moglie. Entrambi erano atei, ma celebravano il Natale. Il fratello maggiore,
George John Szasz (György János), nato l’11 gennaio 1918, svolse, come vedremo,
un ruolo determinante nella sua vita.
Alcuni motivi costanti negli anni della
formazione di Thomas Szasz erano l’insistenza sulle buone maniere, la
gentilezza e la cortesia, lo studio serio e l’affetto per la giovane governante
“Kisu”, alle cui cure furono affidati i fratelli quando Tomi aveva appena un
anno, e che, a differenza della tradizione che voleva che la governante non
solo si curasse dei bambini ma fosse in grado d’insegnare loro una seconda
lingua e farli diventare bilingui, conosceva solo l’ungherese. Szasz era un
bambino malaticcio, condizione da cui trasse due grandi vantaggi: il primo, il
piacere di assentarsi da scuola, che alle elementari non amava, e dedicarsi
alle attività preferite — disegnare, colorare, giocare con i puzzle e cucire,
arte nella quale era diventato molto abile; il secondo vantaggio consisteva nel
fatto che imparò a simulare la malattia, per
potere rimanere a casa e giocare. Nonostante sia Tomi sia György fossero stati
esonerati dalla ginnastica a scuola per motivi di salute, si ribellarono a
qualsiasi restrizione e si dedicarono all’attività sportiva anche in maniera
competitiva tra loro, specialmente quando si trattava di giocare a ping-pong e
a tennis.
Il sistema educativo in Ungheria era rigoroso e il giovane Tomi fu
incoraggiato a orientare gli studi nella direzione delle scienze. All’età di
dieci anni intraprese gli studi presso il ginnasio statale Minta Gimnázium di
Budapest, uno dei migliori in Ungheria, prendendo a modello il fratello,
“lettore onnivoro”, studioso, informato, brillante, come esempio da seguire
nello studio. Tradizionalmente, anche per il forte influsso del cattolicesimo,
nelle scuole maschi e femmine erano tenuti separati. I fratelli Szasz erano
legati da un rapporto di affetto, amicizia, reciproco sostegno. Pur sviluppando
un particolare interesse per la matematica e la fisica, molto presto Thomas
s’interessò anche di politica, letteratura e medicina e prese a studiare le
lingue — oltre all’ungherese il francese, il tedesco, il latino. Poiché era
obbligatorio avere un’identità religiosa, e dovendo scegliere tra ebraismo,
cattolicesimo e protestantesimo, la famiglia Szasz, benché atea, scelse
l’ebraismo.
In An Autobiographical
Sketch, Szasz racconta:
“Ebbi come maestro un rabbino, e questa esperienza intensificò la mia
avversione alla religione che sembrava consistere in credenze presuntuose, riti
senza senso e minacce terrificanti. Solo da adulto iniziai a apprezzare le
religioni come importanti manifestazioni simbolico-culturali della natura
umana. Capii anche che la maggior parte della gente preferisce la dipendenza
dall’autorità e l’illusoria sicurezza che ne deriva, piuttosto che
l’indipendenza con il relativo coraggio di affrontare le incertezze della
condizione umana senza aiuti da parte delle divinità e dei loro ministri”.
Molto presto nacque in Szasz il desiderio di studiare medicina anche se nella
sua famiglia non c’erano precedenti in tal senso, e anche se ciò non avrebbe
recato particolari vantaggi economici e sociali — molto più prestigioso in
Ungheria era fare il professore universitario o l’uomo d’affari. Se per un
qualsiasi motivo non gli fosse stato possibile realizzare questa scelta, anche
perché il padre era contrario, come alternativa avrebbe fatto lo scrittore.
L’annessione dell’Austria da parte di Hitler ebbe conseguenze su Budapest e
sulla vita dei due fratelli Szasz. Mentre György, ottenuta la maturità, era già
iscritto al corso di laurea in chimica, Tomi invece non aveva ancora conseguito
la maturità. In quanto ebrei, i due fratelli, e in tempi diversi anche i
genitori e i parenti, dovettero fuggire negli Stati Uniti. E il 25 ottobre 1938
giunsero a Hoboken, New Jersey. Ma lì, come Szasz racconta, l’antisemitismo era
non meno forte che nell’Ungheria sotto l’influenza del nazismo, per di più
Thomas, diversamente dal fratello, non conosceva l’inglese, avendo studiato a
scuola il tedesco e il francese.
Dunque, negli Stati Uniti egli conobbe la
segregazione razziale. Gli ebrei erano esclusi dalle scuole di medicina, come
del resto lo erano le donne e la gente di colore, tranne che per qualche rara
eccezione. La situazione di Szasz fu aggravata dal fatto che, nonostante le
origini ebraiche, egli proveniva da una famiglia atea e era ateo egli stesso.
Laureatosi in fisica all’Università di Cincinnati nel 1941, l’anno in cui gli
Stati Uniti d’America entrarono in guerra, per una serie imprevista di eventi
favorevoli Szasz riuscì a iscriversi alla scuola di medicina della stessa
Università. Inoltre, poiché occorrevano medici militari, i corsi di laurea in
medicina furono velocizzati, sicché Szasz si laureò, con voti eccellenti, nel
giugno del 1944. Per motivi di salute, fu esonerato dal servizio militare.
Lo
studio della medicina per Szasz era collegato non con la possibilità di
esercitare la professione, cosa che non gli interessava affatto, ma con un
forte bisogno di conoscenza e di controllo: in questo caso la conoscenza e il
controllo del proprio corpo, così come, in genere, di tutto ciò che lo
riguardava. “Ritenevo che qualsiasi cosa che non capivo fosse per me una
potenziale minaccia, e che l’acquisire informazioni e conoscenza fosse una
questione di prudente autoprotezione. Volevo sapere come funzionano le radio,
le macchine, il corpo, la legge e la società, l’economia, la storia — in breve,
come funziona la vita”.
La letteratura, la storia, la filosofia, la politica
erano la sua vera passione, perché contribuivano a fargli capire come la gente vive e anche come muore e come soffre. La
psichiatria non rientrava nei suoi interessi per la medicina: “… fin da bambino
avevo appreso che la psichiatria non era medicina, ma attività poliziesca”.
Tuttavia, anche per i motivi suddetti, egli si addentrò abbastanza presto nel
campo della psichiatria. Già negli anni trenta Szasz leggeva testi di
psichiatria e di psicanalisi, conosceva gli scritti di Sigmund Freud e di
Sándor Ferenczi e, ancora prima di lasciare l’Ungheria, era arrivato alla
determinazione che non solo queste due “discipline” non hanno nulla a che fare
con la medicina, ma non sono neppure collegate tra loro: gli psichiatri
rinchiudono la gente a beneficio dei parenti, gli psicanalisti s’intrattengono
in conversazioni “confidenziali” con i loro pazienti.
Negli Stati Uniti,
nonostante una tradizione non medica nell’ambito della psicanalisi,
rappresentata da Anna Freud, Melanie Klein, Erik Erikson, Erich Fromm, Bruno
Bettelheim, Robert Waelder, la psicanalisi era considerata un’attività medica
vicina alla psichiatria. Nel 1948 Szasz iniziò la pratica psicanalitica e, dopo
varie vicende, tra cui due anni di servizio militare come medico, dal 1954 al
1955, durante la Guerra in Corea, nello stesso anno in cui lavorava al suo
primo libro, Pain and
Pleasure, il 1956, accettò
l’incarico di professore di psichiatria presso la State University of New York
College of Medecine (Suny), ora Upstate Medical University a Syracuse, New
York. Szasz aveva un curriculum brillante sia in medicina sia in psichiatria e
in psicanalisi — si era diplomato presso il Chicago Institute for
Psychoanalysis nel 1950 e successivamente, nel 1951, si era qualificato come
psichiatra ufficialmente riconosciuto dall’American Board of Psychiatry and
Neurology.
Tuttavia, egli sapeva bene di non voler avere a che fare con la
pratica psichiatrica e tanto meno con quella psicanalitica, e di non voler
restare presso l’Università di Chicago. Riteneva che il ruolo del medico
consista nell’assistere coloro che cercano aiuto, e che lo psichiatra commetta
un grave errore morale trattando e rinchiudendo individui contro la loro
volontà. La psicanalisi, per lo meno, aveva d’interessante il fatto che il
trattamento non è obbligatorio. Presto Szasz giunse alla conclusione che la
malattia mentale è una finzione, la psichiatria è una forma di controllo
sociale, fondata sulla coercizione e sull’inganno, mentre la psicanalisi,
correttamente praticata, può assumere la forma di una conversazione
confidenziale che può aiutare la gente a affrontare meglio i propri problemi.
Ma
negli Stati Uniti, a differenza della tradizione europea, la psicanalisi
non
veniva praticata in questi termini: anche lo psicanalista era un medico
libero
di narcotizzare e ospedalizzare il paziente. Comunque, Szasz sapeva che
avrebbe
dovuto rafforzare la propria posizione ufficiale, prima di potere
prendere una
posizione critica apertamente in contrasto con le istituzioni che
regolavano la
vita del cosiddetto malato di mente. Dalla tragica vicenda del medico
ungherese Ignaz Semmelweis (1818-1865), Szasz imparò molto presto che
avere torto può
essere pericoloso, ma avere ragione, in una società dove la maggioranza
crede
vero ciò che è falso, può essere fatale. In passato le false verità
strutturali
al sistema di credenze di un’intera società erano di natura religiosa,
attualmente sono di ordine politico e medico. Il concetto di “malattia
mentale”
è un mito che, diversamente dalle malattie del corpo di cui vanno
ricercate le
cause e le cure, riguarda invece il comportamento, i cui motivi vanno
“intesi e
rappresentati nello stesso modo in cui il romanziere e il commediografo
intende
e raffigura i motivi e i comportamenti di personaggi immaginari”.
Per tutta la vita Szasz si è interrogato
sulle interpretazioni dominanti della libertà, della responsabilità, della
follia, della sessualità, della medicina e della malattia. Psichiatra e
psicanalista divenuto radicalmente critico della psichiatria e della
psicanalisi, e ritenendo la stessa malattia mentale un mito, una metafora,
Szasz tuttavia, in nome del diritto naturale alla libertà, di cui è fermo
assertore, difende la libertà di ciascuno di partecipare alle pratiche
psichiatriche e psicanalitiche, allo stesso modo in cui siamo o dovremmo essere
liberi di partecipare ai riti religiosi. Szasz, il cui pensiero si colloca
nella tradizione del liberalismo classico influenzata da Thomas Jefferson, John
Stuart Mill e Ludwig von Mises, crede nella separazione tra religione e stato,
e dunque tra medicina e stato, psichiatria e stato.
Ciò che egli non accetta è
la coercizione e la medicalizzazione della società. A nessuno deve essere
imposto l’obbligo di consultare lo psichiatra, ricoverarsi, prendere farmaci,
come non deve essere imposto di credere in un qualsiasi sistema di idee. Ciò
che Szasz contesta è la coercizione, l’esercizio del potere, la prevaricazione
sulla volontà dell’individuo. È favorevole, invece, a un rapporto consensuale.
Quando pratica la psicoterapia, Szasz non si pone come “professionista della
salute mentale”, ma entra in “conversazione” per ascoltare i problemi di
ciascuno. In ambito di politica sociale, Szasz si è impegnato su vari fronti,
con risultati diversi, battendosi, per esempio, contro la classificazione
dell’omosessualità come malattia, la finzione che la circoncisione sia una
pratica medica, l’ospedalizzazione forzata, il proibizionismo riguardo all’uso
delle droghe, contro le varie forme di terapia sessuale, che egli ritiene forme
di prostituzione e pornografia mascherate da “educazione per la salute
mentale”.
Un punto fermo, a prescindere da quelle che sono le proprie
convinzioni personali è, secondo lui, il fatto che lo stato non debba
intervenire su questioni di ordine morale. Inoltre, mentre egli difende il
diritto al suicidio, si oppone all’idea del suicidio assistito dal medico,
considerandolo un’ulteriore forma di abuso di potere, in quanto, analogamente
al processo di medicalizzazione del sociale, conferisce al medico il potere di
gestire la vita altrui, collaborando anche alla libertà di morire. Famoso ormai
a livello mondiale per la sua visione critica nei confronti delle pratiche
psichiatriche e psicanalitiche, Szasz, come all’inizio del suo percorso, ancora
oggi si oppone attivamente all’uso della coercizione e delle sue
giustificazioni da parte della psichiatria, in quanto abuso comunemente
praticato in nome della conoscenza scientifica. A questo proposito, i titoli
dei suoi libri più recenti sono significativi: Psychiatry:The Science of Lies e Antipsychiatry:
Quackery Squared.Szasz
prende però anche le distanze da molte delle posizioni dell’“antipsichiatria”,
quale risulta rappresentata da nomi importanti come David G. Cooper, che
introdusse il termine nel 1967, Ronald D. Laing e lo stesso Michel Foucault
(comunicazione email del 10 gennaio 2008).
Nel 1963 Szasz introduce
l’espressione “stato terapeutico”, per indicare il potere politico del medico,
in particolare dello psichiatra, che, in quanto agente dello stato terapeutico,
può privare della libertà l’individuo giudicato una “minaccia per se stesso e per
gli altri”, senza dover passare per il sistema legale. Szasz non accetta che lo
psichiatra possa sostituirsi alla legge, decidendo sull’imputabilità di un
crimine in base allo stato di salute o di malattia mentale dell’imputato.
Inoltre, riconosce allo stato il diritto d’intervenire su questioni che
riguardano la salute pubblica, per esempio, d’impedire la libera circolazione
di una persona affetta da una malattia infettiva, ma non il diritto
d’intervenire su questioni private, come, per esempio, l’uso di droghe.
Bene/male, buono/cattivo, sicuro/pericoloso, rischioso/non rischioso non
descrivono, dice Szasz, le qualità di una droga, ma semmai sono paradigmi che
riguardano l’uso che se ne fa, che è una questione etica e non governativa.
The Myth of Mental Illness. Foundations of a Theory of Personal Conduct,
pubblicato per la prima volta nel 1961, considerato ormai un classico, segnò
una svolta nella vita di Szasz. In seguito alla pubblicazione di questo libro,
egli fu censurato e osteggiato in vari modi, la sua libertà accademica fu
minacciata da autorità garanti dell’igiene mentale pubblica . Szasz fu
costretto a intraprendere le vie legali per difendersi dai continui tentativi
di diffamazione. Riuscì comunque a svolgere il ruolo di psichiatra nella Upstate
Medical University a Syracuse, New York, fino a divenire, nel 1990, professore
emerito.
Il mito della
malattia mentale, tradotto
in molte lingue, fu originariamente pubblicato in italiano dal Saggiatore nel
1974. Lo stesso anno Szasz ne pubblicò una nuova versione (Harper & Row).
Di questa nuova versione, e con una nuova prefazione dell’autore, uscì nel 2003
per la casa editrice Spirali la traduzione italiana, del tutto nuova, di
Francesco Saba Sardi. Presso Spirali nel 1990 era stato pubblicato L’incapace. Lo specchio morale del
conformismo, in cui sono
raccolti alcuni interventi fatti da Szasz in Italia, a New York nel 1981, e in
altri congressi internazionali; e successivamente, nel 2000, è uscito La battaglia per la salute, un libro che nasce dall’incontro con i
giovani dell’Università internazionale del secondo rinascimento in occasione di
un master da lui tenuto nel 1999.
Szasz ha introdotto nella lingua inglese
altre due espressioni, oltre a the
myth of mental illness,
che, insieme a quest’ultima, lo hanno reso celebre: the therapeutic state, lo stato terapeutico, e pharmacracy, che fa da titolo al suo libro del 2001, Pharmacracy. Medicine
and Politics in America (tradotto
in italiano presso Spirali nel 2005). Szasz è autore di numerosi volumi, a
cominciare dal libro già menzionato, Pain
and Pleasure. A Study of Bodily Feelings, del 1957, e di numerosi saggi scientifici e di divulgazione.
Ho conosciuto Thomas Szasz a Villa San Carlo Borromeo a Senago (Milano), dove
ero stata invitata da Armando Verdiglione e Cristina Frua De Angeli a
partecipare, con Augusto Ponzio, al congresso internazionale Medicina e humanitas. Aritmetica e
cifratica della vita, che
si svolse dal 28 al 30 novembre del 2003. Szasz lesse la relazione Perché ho scritto ‘Il mito della malattia
mentale’ , a cui ho fatto
riferimento sopra.
Nella sua presentazione al congresso, Verdiglione indicò Il mito della malattia mentale come uno dei libri più importanti del
novecento e sottolineò la partecipazione di Szasz fin dai primi congressi ai laboratori
intellettuali di Spirali, ricordando la reciproca collaborazione, ormai più che
trentennale, sull’istanza di medicina e umanità. Al primo numero di “Spirali.
Giornale internazionale di cultura”Szasz
contribuì con l’articolo intitolato Una
follia legale: la dissidenza. La psichiatria in Russia e negli Stati Uniti. “Altra cosa dalla battaglia per la
salvezza”, dice Verdiglione, “è la battaglia per la salute intellettuale”. “In
generale, invece”, dice Verdiglione presentando il libro di Szasz sul mito
della malattia mentale, “il discorso della morte fa una battaglia per la
salvezza e conduce sempre a terapie gnostiche, ‘riuscite’ e con pazienti
deceduti”.
Ho invitato Thomas Szasz a tenere una lezione a studenti e docenti
all’Università di Bari. Il 18 maggio del 2004, ha tenuto la conferenza Protolinguaggio, il linguaggio del corpo. Già era apparso in “Corposcritto” il testo
di Szasz dal titolo Se
vogliamo parlare senza infingimenti del suicidio (Straight
Talk about Suicide), da me
presentato e tradotto in italiano. Desidero concludere questa parte dedicata
alla presentazione di Szasz e alla sua critica dello “stato terapeutico”
citando ciò che di lui dice Armando Verdiglione in occasione della sua
intervista del 2003: “Thomas Szasz è un grande combattente. Ha combattuto,
nonostante l’ostracismo della cosiddetta maggioranza compatta, negli Stati
Uniti, in Francia, in Italia, in Germania, nei vari paesi. Non parliamo
dell’Unione Sovietica, dove non è mai stato tradotto, per ovvie ragioni, perché
l’uso politico della psichiatria in Unione Sovietica non c’era neppure bisogno
di affermarlo. Ma l’uso politico della psichiatria c’è anche nelle democrazie.
Non c’è altro uso della psichiatria se non politico. Così della psicoterapia.
Così della psicologia. Così di ogni volgarizzazione della psicanalisi che passa
anche sotto la nazionalizzazione dell’inconscio”.
“La possibilità che Virginia abbia
sofferto, più che per l’abuso sessuale, per un altro tipo di abuso”
La lettura — sia per il titolo che mi
incuriosiva, sia per l’interesse per l’opera di Szasz — di “My Madness Saved Me”. The Madness and
Marriage of Virginia Woolf,
apparso nel 2006, suscitò in me come prima risposta l’idea di tradurlo in
italiano. Tradurre da una lingua all’altra: un modo per mettersi in ascolto
delle parole dell’altro e di leggere scrivendo, un modo per accostarsi
all’altro, viaggiare in compagnia dell’altro, alla continua ricerca del senso —
delle parole, della narrazione, del vivere, della relazione. Viaggio in cui
nulla si può dare per scontato, viaggio non facile, ma seducente e vitale. Una
modalità dell’intendimento in cui il testo in traduzione genera nuovi segni e
sensi in continuo dialogo tra loro, complementari e complici nella costruzione
di nuovi mondi che, contrariamente alla pretesa della chiarezza e della
spiegazione, generano nuovi percorsi e nuove possibilità d’intendimento. In
questo libro, ancora una volta, Szasz sviluppa la sua caustica critica della
psichiatria e del “mito della malattia mentale” attraverso una puntuale e spregiudicata
ricostruzione della vita di Virginia Woolf.
In ciò rivela una grande capacità
di ascolto, disposizione che contrasta con il discorso dominante — nella
critica letteraria, nella filosofia, nelle scienze umane e nella lingua comune
— sul “genio malato”, sul rapporto tra malattia mentale e talento artistico.
Nella seconda delle due conversazioni citate con Armando Verdiglione, Szasz,
parlando di questo libro non ancora pubblicato, dice: “Il mio prossimo libro
verrà pubblicato nel febbraio del 2006; parla della presunta malattia mentale
di Virginia Woolf e del suo matrimonio con Leonard Woolf. Per metà è un’opera
letteraria e per metà un’illustrazione, un’esemplificazione dell’idea che la
cosiddetta malattia mentale non è una malattia, ma una relazione fra due
persone, e tra loro e la società, e questo viene chiamato malattia mentale”.
Questo libro sulla follia e sul suicidio di
Virginia Woolf ha un andamento, più che interdisciplinare, transdisciplinare,
coinvolgendo discipline diverse quali la psicanalisi, la psichiatria, la
medicina, la giurisprudenza, l’etica, ma anche la critica letteraria, la
filosofia, la linguistica, women’s studies, cultural studies e, soprattutto, la
scrittura, la scrittura letteraria; transdisciplinarietà anche nel senso che
dall’ambito delle scienze, delle teorie e dai luoghi del discorso si sconfina
verso la vita e la parola originaria. L’analisi di Szasz ha di mira le
assurdità della “psicopatologia”, ma demolisce anche quel mondo di carta che la
“cultura” erige sovrapponendo un soggetto mitologico, ottenuto con l’effetto
del chiaroscuro (buono/cattivo, sano/malato, capace/incapace,
integrato/disadattato), alla singolarità, all’unicità, all’incomparabilità di
ciascuna vita.
Non si tratta solo del mito della “malattia mentale”,
generalmente considerata un “affare altrui”, ma anche dell’identità sessuale,
dell’appartenenza, dello stato civile, della funzionalità,
dell’identificazione, del ruolo, della “sistemazione” professionale, insomma
dell’“inserimento nel mondo”, che riguarda ciascuno, “genio” o “non genio”,
“normale” o “anormale”. In discussione è non soltanto la visione psichiatrica e
il suo impiego in quanto forma di controllo sociale; lo sono anche i luoghi
comuni di cui essa si avvale e che impediscono l’incontro con l’altro nei
termini di quello offerto da Szasz con una inedita, sconosciuta, inascoltata
Virginia Woolf.
Refrattario alla separazione dei generi di discorso, questo
libro fuoriesce dal genere saggistico e assume le movenze di una narrazione. In
questo studio sulla follia e sul matrimonio di Virginia Woolf, “La mia follia mi ha salvato”, Szasz presenta una riflessione critica sui
rapporti umani, rapporti che passano inevitabilmente attraverso la parola, che
si costruiscono nella parola, la parola narrata. L’ascolto di Szasz è rivolto a
Virginia Woolf, autrice e donna, come pure ai personaggi da lei inventati e al
suo entourage della vita reale. Ne riprende le parole e riflette su di esse,
attingendo tanto dalla scrittura letteraria di Virginia, dai suoi romanzi e
racconti, quanto dalla scrittura non letteraria, dalle sue lettere, dai suoi
diari, senza trascurare i discorsi dei biografi, degli stregoni della
psichiatria e della psicanalisi psichiatrizzata, dei denigratori, degli
ammiratori e degli emulatori di Virginia, dei critici letterari e delle
femministe. Inevitabilmente, egli si scontra con l’arroganza della pretesa di
sapere, di giudicare, di classificare, di assolvere e di condannare soprattutto
da parte di coloro che Szasz smaschera come dilettanti e imbroglioni (si
vedano, sotto questo aspetto, i testi in appendice, dove Szasz svolge senza
mezzi termini la sua critica nei confronti dei ciarlatani della psichiatria e
della psicanalisi).
Secondo Szasz, Virginia Woolf aveva assunto una posizione
ambivalente nei rapporti con gli altri: come scrittrice sapeva che la malattia
mentale non esiste, e considerava gli psichiatri degli “pseudomedici,
inquisitori e carcerieri”; invece, nel ruolo sociale di moglie, sorella,
cittadina sembrava accettare la realtà della malattia mentale e la legittimità
della psichiatria come specialità medica. Szasz dà ragione a Virginia nel
ritenere che la malattia mentale non esiste, come si può arguire da Mrs. Dalloway, e commenta così: “il che implica che i
comportamenti (sbagliati), come quelli manifestati da lei stessa erano in senso
forte ‘difetti’ del soggetto stesso; che le cosiddette malattie mentali sono
problemi esistenziali e morali; che, insomma, il suo limite riguardava
l’integrità, non la salute mentale… Virginia non voleva rinunciare al ruolo di
paziente mentale nel 1913; non era pronta a rinunciarvi nel 1923; e si teneva
stretta a esso nel 1941, quando si uccise”.
Virginia distingueva fra
trattamento psichiatrico — a cui era pronta a sottoporsi pur essendone critica
— e psicanalisi, che puntualmente evitava. Szasz fa presente che, nel 1917,
Freud scriveva: “La psichiatria dice soltanto con un’alzata di spalle:
‘Degenerazione, disposizione ereditaria, inferiorità costituzionale!’.
L’impresa della psicanalisi è spiegare questi stranianti casi di malattia…”. Il
malato di mente è paragonato a un sovrano assoluto che non conosce la verità
circa il popolo su cui sovrasta. Freud spinge “coloro che soffrono” a guardarsi
dentro: “Ti comporti come un sovrano assoluto che si accontenta delle
informazioni dei suoi più alti funzionari di corte e non scende tra il popolo
per ascoltarne la voce. Entra in te, nelle tue profondità e prima impara a
conoscerti, poi capirai perché devi ammalarti, e forse evitare di ammalarti”.
Ma secondo Szasz è precisamente ciò che Virginia non voleva fare, guardarsi
dentro e conoscersi, e proprio per questo scelse di rendersi complice degli
psichiatri nell’equivocare e negare il significato della propria “malattia”:
“Sigmund Freud voleva penetrare l’anima per scoprire i suoi segreti; Virginia
Woolf voleva proteggere l’anima e i suoi segreti da sguardi indiscreti.
Comprese e ha trasmesso a noi, come pochi altri hanno fatto, i pericoli
dell’essere capiti, dell’avere ciò che ora chiamiamo ‘buone relazioni umane’”.
Infatti, un grande merito di Szasz è quello di metterci in guardia contro
l’arroganza del capire, del comprendere, dell’interpretare. Szasz riflette sul
significato delle parole collegate con le questioni di cui si occupa: malattia,
medicina, umanità, libertà, responsabilità, potere, psichiatria, corpo, mente,
malattia mentale; e sul rapporto tra queste parole e ciò a cui rimandano in
lingue diverse.
In inglese, fino al 1600, non esisteva il sostantivo mind, solo il verbo to
di, custodire, badare a, fare
attenzione, attendere a, stare in guardia. Nel suo intervento al congresso del
2003, a Villa San Carlo Borromeo, Perché
ho scritto ‘Il mito della malattia mentale’, Szasz dice: “L’inconscio freudiano è
qualcosa che non c’entra con mind… da un punto di vista scientifico la mente
non esiste più di quanto esista l’anima… Che cos’è lo studio della mente? Se la
mente non esiste, come fa a ammalarsi? Quod
erat demonstrandum. Fine
della storia… Da oltre quarant’anni definisco questo lo stato terapeutico. Un tempo,
c’erano gli stati teologici, la cui legittimazione e il cui funzionamento erano
salvaguardati dall’idea di Dio, della religione e della Bibbia.
Questo viene
oggi gradualmente sostituito dai criteri medici… anzi prevalentemente dai
cosiddetti criteri psichiatrici”. Szasz ribadisce il suo rifiuto del ricorso
alla coercizione nei confronti del cosiddetto “malato di mente”, dell’uso di
psicofarmaci, del ricorso all’elettroshock, all’ospedalizzazione forzata, e
ribadisce di non riconoscere la condizione di malattia mentale. “Tutto il mio
lavoro verte intorno alla constatazione che l’infermità mentale non esiste,
come non esiste la stregoneria. Come non esiste l’unicorno. In altre parole,
non si può provare di una persona la salute mentale perché non si può provare
l’infermità mentale”.
In risposta alla mia domanda se ci fosse una ragione
perché nel libro sulla follia di Virginia Woolf non usasse mai il termine
“psicopatologia”, Szasz chiarisce che “il termine ‘psicopatologia’ conferisce
un’aria di legittimità medica al fenomeno, che, invece, è del tutto assente
nella espressione ‘malattia mentale’ — che resta vaga e quasi vacua, priva di
senso. In tutti i miei scritti, evito termini medici (o che risuonano in senso
medico), tranne che in riferimento a malattie reali”. E infatti, in una
comunicazione successiva, egli torna a ribadire che “tutta la questione di
questo libro è che Virginia Woolf non era una donna ‘malata’, ‘folle’; era una persona orgogliosa, indipendente”. Sicché nella stessa lettera Szasz mi
suggerisce di “avvertire il lettore che le scelte linguistiche sono molto
importanti, sottilmente comunicative”.
Interessanti a proposito dell’attenzione
di Szasz alle questioni linguistiche sono i suoi commenti riguardo alla scelta
del pronome da usare in un discorso dove l’opposizione maschile/femminile non è
pertinente. In risposta alle mie osservazioni intorno all’uso di termini come
“uomo” in italiano e man in inglese con il significato generale di ánthropos, non quindi in contrapposizione a gyné, Szasz osserva che: “1. La formula he/she è una farsa. Ti immagini se l’avesse fatto Shakespeare? Il
political correctness al peggio. 2. Aggiungere sempre she — un’alternativa che ora molti scrittori americani adottano — non è meno sessista. Anzi è l’esatto opposto. 3. La lingua
ungherese: lo sai che non ha forme grammaticali distinte per indicare i generi?
(Il genere deve essere inferito dal contesto, dalla situazione). E naturalmente
la cultura ungherese non era/è esente dal sessismo; il fatto che la sua lingua
non abbia il genere, non abbia l’equivalente di he e she non comporta affatto che sia meno sessista
di altre lingue”.
La “follia” di Virgina Woolf, immediato oggetto di studio, ma
anche pretesto per esplorare i labirinti della vita psichica, fatta di discorsi
ufficiali, di luoghi comuni, di discorsi non ufficiali, inespressi o
inesprimibili della vita inconscia, della materia non semiotizzabile. Proprio
ciò che rappresentiamo come definito, preciso, integro, sfugge al controllo
della coscienza, precipita nel vuoto del differimento infinito tra segni e
resiste alla presa della lucida e rassicurante conoscenza, alla soffocante
arroganza, alle pretese di padronanza.
Nel mondo globalizzato ormai in piena
crisi, si diffonde sempre più la moda della seduta psicanalitica. Oggi,
in un
mondo sempre più consumistico, vulnerabile e medicalizzato, il
linguaggio
psichiatrico, terapeutico, come pure la pratica della psicanalisi a esso
uniformata, piace e fa moda. Ma quale psicanalisi? Intanto bisogna
ricordare
che Szasz vive e scrive negli Stati Uniti, il suo riferimento è
l’esperienza psichiatrico-psicanalitica americana. In ogni caso egli è
sempre pronto a
evidenziare le fondamentali differenze tra psichiatria e psicanalisi,
psichiatra e psicanalista, e a mettere in guardia contro la tendenza
piuttosto
diffusa a confondere le due pratiche. Szasz interroga la natura del
rapporto
tra medico e paziente, e si chiede se favorisca o meno nel paziente lo
sviluppo
della consapevolezza e quindi la condizione di libertà, di
responsabilità, o,
al contrario, se non sia il medico l’unico a trarne vantaggio.
Certamente,
realizzare un rapporto di potere sul paziente preclude ogni possibilità di
aiutarlo. Szasz denuncia i rapporti di potere che vengono a instaurarsi tra
medico e paziente, soffermandosi sugli abusi da parte dello psichiatra nei
confronti dell’individuo stigmatizzato come malato di mente: l’uso della
psichiatria per sorvegliare e controllare e eventualmente privare l’individuo
della propria libertà. “La malattia maniaco-depressiva è la razionalizzazione e
la giustificazione medicoterapeutica della violenza fisica e dell’aggressione
contro il ‘paziente’”, dice Szasz nell’appendice a “La mia follia mi ha salvato”. A Virginia Woolf fu diagnosticata questa
malattia, il che legittimava il rapporto di continuo controllo e sorveglianza
praticato nei suoi confronti da parte del marito Leonard e dei suoi delegati.
Ma il cattivo uso della psichiatria è
imputabile anche al malato che, a sua volta, vi ricorre come mezzo per
esercitare la propria volontà di controllo sull’altro, magari facendo
intravedere la prospettiva del suicidio. Nell’interpretazione di Szasz,
Virginia aveva sposato Leonard senza amarlo. “Si sentiva in colpa e si puniva
con l’agire da folle, con l’essere folle e lasciandosi umiliare da Leonard e
dagli psichiatri che egli aveva attentamente scelto. Il ritratto dello
psichiatra fatto da Virginia in Mrs.
Dalloway non può lasciare
alcun dubbio circa il fatto che avesse capito sin troppo bene che cosa fosse e
che cos’è la psichiatria”.
Il mondo della globalizzazione, della comunicazione
globale, si contraddistingue per un paradosso: la sempre più diffusa
condizione
di alienazione sociale, di alienazione linguistica, come diceva
Ferruccio Rossi-Landi (1968, 1972, 1978). In altre parole, quanto più si
afferma
l’ideologia dell’“essere collegati” grazie agli odierni mezzi di
comunicazione,
tanto più, sul piano dell’umano, si verifica una situazione di
separatezza e
d’isolamento. È interessante che nel romanzo 1999. L’uomo che voleva essere guarito Georges Mathé narri del “male globale”, che
comporta il bisogno d’interrogare il proprio progetto di vita e quindi la
complessiva programmazione sociale di cui fa parte — nessun malato, nessuna
cura, nessuna medicalizzazione. Nell’era del mercato globale, la dimensione del
rapporto intercorporeo svanisce nell’etere, dissipata dal vorticoso consumo di
cose, persone, relazioni, desideri. Questo libro di Szasz, in una situazione di
disagio provocato dalla mercificazione dei rapporti, dai processi di
disumanizzazione del quotidiano, suscita particolare interesse, tanto più per
aver assunto, come immediato oggetto di studio, il caso di un personaggio
famoso come Virginia Woolf, in cui s’incontrano, nell’immaginario popolare,
genialità e follia.
“Un agente morale che usava la malattia mentale, la psichiatria e il marito”
Il punto centrale dello studio su Virginia
Woolf da parte di Szasz, che è anche la sua motivazione e la sua tesi, è la
concezione dell’io come “agente morale”, come soggetto consapevole, capace di
padroneggiare se stesso e l’immagine che presenta agli altri. Szasz vuole
liberare Virginia dal luogo comune di vittima della malattia mentale e
riabilitarla come agente morale responsabile delle proprie scelte e dei propri
comportamenti. Ciò è in linea con la concezione di Szasz circa “libertà”,
“responsabilità” e “volontà” individuali.
Per Szasz la “malattia mentale” non
esiste come oggettiva condizione patologica da curare, esiste invece il
comportamento socialmente accettabile o meno. Tuttavia, egli non tiene conto
del fatto che la sua interpretazione di concetti come quello di libertà
presuppone la “padronanza” nei termini teorizzati da Armando Verdiglione,
presuppone il “proprio” corpo, le “proprie” parole come proprietà, possesso.
Ciò finisce per legittimare l’imputazione di follia e di alienazione intese
come perdita di padronanza, di controllo sul “proprio” corpo. Senonché, come
ora vedremo, è pazzo, dice bene Verdiglione, con Machiavelli, chi crede di fare
ciò che vuole. Al tempo stesso, Szasz ha ragione quando respinge con forza la
tendenza a “depersonalizzare” il comportamento “socialmente deviante” nel
momento in cui tale comportamento viene interpretato riduttivamente nei termini
di una qualche tipologia prestabilita di malattia mentale.
Gli psichiatri hanno
dei criteri per diagnosticare la malattia mentale, vere e proprie gabbie
interpretative, ma in questi criteri non rientra “la capacità di trovare un
significato nella follia” nonostante l’esempio di personaggi come William
Shakespeare e Sigmund Freud. Perciò, solo quando ci saremo liberati degli
“inquisitori psichiatri” sarà finalmente possibile fare qualcosa per chi viene
stigmatizzato come “malato mentale”. L’idea del “genio folle” ha lo scopo, dice
Szasz, di “rendere il soggetto meno ammirevole come persona e meno responsabile
del proprio comportamento come agente morale… L’idea della malattia mentale è
proprio rivolta a minare questa concezione dell’uomo come agente morale, come
attore responsabile sul palcoscenico della vita… L’individuo come agente morale
sceglie sempre il proprio stile
di comportamento, nella
salute e nella malattia mentale, nell’arte e nel lavoro”. E per quanto concerne
Virginia: “Virginia Woolf non era vittima né della malattia mentale, né della
psichiatria, né del marito — i tre modi secondo cui è abitualmente descritta.
Invece, era una persona intelligente e capace di imporsi, un agente morale che
usava la malattia mentale, la psichiatria e il marito per foggiarsi la vita che
si era scelta. Ciò non significa attribuirle una sorta di libero arbitrio
illimitato e neppure negare l’impatto profondo che ebbe su di lei e sulle
scelte di vita che le si prospettarono l’ambiente sociale e culturale in cui
crebbe e visse. Si tratta soltanto di non dimenticare la supremazia del suo io
come agente morale attivo, orientato verso uno scopo, in egual misura
responsabile della propria ‘creatività’ e della propria ‘follia’”. Il tema
della libertà come anche della responsabilità sono costanti nella riflessione
di Szasz. Egli definisce la propria “concezione ungherese di libertà”, vale a
dire quella di un paese che è stato sempre oppresso e occupato da altri, sicché
la libertà è intesa come libertà dall’invasione e dall’invadenza altrui.
Negli
Stati Uniti, invece, la libertà è intesa in termini d’indipendenza. Ma anche
qui la libertà individuale, dice Szasz, è minacciata, è minacciata dallo “stato
terapeutico”, espressione da lui stesso coniata per indicare una forma moderna
di totalitarismo. Esistono almeno due modi di perdere la propria libertà:
essere rinchiuso in un carcere o essere internato perché ritenuto folle. Ma se
la follia è una malattia mentale, essa non esiste, perché, come abbiamo già
osservato, la mente non esiste. Esistono, invece, il potere e la coercizione. E
Szasz descrive il rapporto storico tra malattia-potere-religione-medicina. Fino
ai tempi moderni, così come non era legittimo liberare la Bibbia dalle lingue
sconosciute in cui era stata scritta traducendola nelle lingue popolari, allo
stesso modo il cadavere doveva rimanere rinchiuso nella propria sacralità,
indecifrabile. Solo con i progressi della ricerca scientifica, prefigurati
dagli studi di uomini come Leonardo da Vinci, fu finalmente possibile “figurare
e descrivere” il cadavere per meglio conoscere il corpo e andare incontro alla
vita.
Dell’anatomia. Figurare e descrivere è il titolo del capitolo dedicato
all’anatomia in Leonardo da Vinci di Armando
Verdiglione. “Adunque è necessario figurare e descrivere”, dice Leonardo. L’anatomia di Leonardo è scrittura, in
quanto procedura intesa al discrimine, alla discriminatura, al discreto. Il
taglio è l’artificio dell’anatomia, distacco dal naturale, la sua qualità
specifica, la sua cifra, che rende raffigurabile l’irrappresentabile, la
sembianza.
Ma allora, un altro senso di “libertà” si
delinea, rispetto a quelli indicati da Szasz: la libertà come virtù del principio della parola, come libertà della parola. Essa investe la cifra, la particolarità della vita, l’ascolto.
Ma, dice Verdiglione, “Tutto il discorso occidentale è senza l’ascolto perché
pone alla base dell’ascolto il rapporto sociale, il dispositivo sociale, il
dispositivo conformista, il rapporto medico paziente, anziché il dispositivo di
parola”.
La libertà è una virtù della parola, e il rinascimento consiste anche
nel riconoscere ciò. Come pure esso, con Leonardo da Vinci, con Machiavelli e
con Ludovico Ariosto, riconosce che — proprio diversamente da quanto vuole
farci credere il discorso dominante, quando definisce la libertà come libertà
del soggetto, come la condizione di poter fare ciò che si vuole — la pazzia
consiste nel credersi padrone di fare quello che si vuole. Machiavelli nei Discorsi diceva che “un principe che può fare ciò ch’ei vuole, è pazzo”.
In effetti, come fa notare Verdiglione, nessuno può fare, può permettersi, ciò
che vuole, né il principe, né il moralista che dice cosa si deve fare e non si
deve fare.
Il soggetto, padrone di sé, del proprio corpo, delle proprie parole
è un prodotto dell’epoca moderna in reazione al rinascimento, e risale invece a
Cartesio e a John Locke. Al soggetto viene attribuita la libertà come suo
possesso e dotazione. In apertura alla seconda giornata del congresso Medicina e humanitas. Aritmetica e
cifratica della vita, del
2003, riprendendo il discorso di Thomas Szasz della seduta inaugurale del
giorno prima, Verdiglione notava che la libertà come virtù del principio di
parola è ben altra libertà da quella rivendicata da Szasz, che è la libertà
dell’Habeas corpus, della Magna Charta,
dell’illuminismo scozzese, la libertà sancita dalla Costituzione americana,
libertà ancora “epistemica, gnostica, aristotelica”.
Szasz rivendica l’idea del
soggetto individuale come agente morale, responsabile, libero di gestire il
proprio corpo come vuole, anche di decidere la propria morte suicidandosi:
“L’idea che siamo noi i padroni e i responsabili di noi stessi e del nostro
corpo è un’idea antica, di matrice anglosassone, risalente a John Locke, della
seconda metà del seicento, e ancor prima alla Magna Charta.
Tale idea implica
il concetto politico per cui ciascuno è padrone del proprio corpo, e deriva dal
tradizionale concetto medico — che ancora si riferisce alle leggi
angloamericane — secondo cui non si può toccare un paziente senza il suo
consenso”. Ma la libertà di morire risponde a una scelta obbligata. Commenta
Verdiglione: “Altra è la libertà: una virtù del principio della parola, una
virtù della parola. Non è una proprietà del soggetto, creatura gnostica
dell’epoca moderna, in reazione al rinascimento prima, da parte dell’ideologia
della riforma con Cartesio, e all’indirizzo illuministico romantico dopo, con
Hegel e l’ideologia romantica. Questo soggetto è soggetto alla morte. La
libertà è libertà di morire. Libertà come morte”.
Soggetto, libertà, possesso,
corpo come proprietà, padronanza: la provenienza è lontana. Dice Eraclito: “la
massima virtù è la padronanza di sé”. Ciò già indica, commenta Verdiglione,
l’idea di sé, di rappresentazione di sé, la rappresentazione dell’ostacolo.
Padronanza di sé come caratterizzazione della libertà di ognuno. È libertà come
proprietà del soggetto, libertà come padronanza, libertà di fare quello che si
vuole. “Ognuno fa ciò che vuole: è questa la tesi, fra Aristotele e san Tommaso.
È soltanto Machiavelli a dire che chi fa ciò che vuole è pazzo. È soltanto
Machiavelli a dire che la politica aristotelica è pazza. Ma è la politica che
ancora viene praticata, non è la politica di Machiavelli”. Verdiglione
ironizza: “Thomas Szasz si trova in America, quindi fa l’americano, deve
riferirsi alla Scozia, a John Locke.
La libertà, la tolleranza, il diritto,
secondo John Locke. Però, Szasz fa alcuni libri di notevole interesse,
poi ci sono obiezioni che noi rivolgiamo a questi libri, ma proprio rispetto a
questo riferimento, che è un riferimento al discorso occidentale. Ciò non
toglie che abbiano elementi d’interesse Lo
stato terapeutico (1984) e Il
mito della psicoterapia (1978), anche se ingloba anche Freud nella
psicoterapia, ma nella psicoterapia ingloba Freud, così come è diffuso in tutto
il pianeta, come se si trattasse di psicoterapia”.
Nelle sue riflessioni sul titolo del congresso Medicina e humanitas. Aritmetica e
cifratica della vita, Verdiglione faceva notare che humanitas non è l’umanesimo
degli umanisti: un conto è l’umanesimo degli umanisti “epistemici,
aristotelici, gnostici, ontologi”, un altro è l’umanesimo di Leonardo.
All’umanità attiene ciò che può essere indicato come rinascimento: “qualcosa
che attiene all’umanità, al terreno dell’Altro”. “Niente umanità con il principio
del terzo escluso. Se l’Altro viene espunto, può essere rappresentato come
diverso, tollerato come diverso, canonizzato come vittima. Che non ci sia più
l’espunzione dell’Altro è essenziale per ben altra umanità, per ben altra
tolleranza, per ben altri dispositivi, anzitutto rispetto alla libertà cui
accenna Thomas Szasz. La libertà come virtù del principio della parola”.
Con
l’instaurarsi del rapporto di potere sul paziente piuttosto viene a mancare il
dispositivo di parola, il dispositivo di ascolto. Ma non può esserci cura senza
dispositivo di ascolto, senza dispositivo di parola, senza dispositivo
intellettuale. “Tutto viene delegato all’apparato
e al farmaco. Gli officianti diventano intermediari, mediatori con una
delega. Il medico, talora, delega tutto al farmaco, allo psicofarmaco o
all’apparato. Come può avvenire una cura senza la parola? Sarebbe stato assurdo
nella scuola di Crotone e sarebbe assurdo oggi, senza la parola”.
In questo
senso Verdiglione, utilizzando il titolo del libro di Szasz, La battaglia per la salute,
parla di “battaglia per la salute intellettuale”, che non è la “salute
perfetta”, come scrive Lucien Sfez nel libro La
salute perfetta. Critica di una nuova utopia39, tanto meno la salvezza. Niente unità ideale, niente comunità
fondata sulla logica dell’identità,
sul sacrificio dell’altro. Ogni comunità produce il suo
extracomunitario, l’altro non assimilabile,
l’altro sacrificato, il nemico.
Dalla logica dell’identità nasce ogni
sorta di razzismo, antisemitismo, nazionalismo, patriarcato, ogni sorta di
moralismo e di dogmatismo: “Il secondo rinascimento. Rinascimento originario.
Rinascimento della parola. Industria
della parola. E cifratura della parola. Le cose procedono dall’apertura,
dal due, anziché dall’uno. Non hanno da inseguire nessuna unità ideale, in nome
della quale si crei il vittimismo. Non c’è nessuna vittima da sacrificare. Non c’è più vittima”.
La parola
procede da una situazione di alterità assoluta, dalla cura, che non è né
rimedio né terapia, in cui non c’è né possesso né controllo, ma piuttosto
accostamento, ascolto, interlocuzione. Niente logica binaria, nessuna
opposizione né tolleranza, niente interrogazione in cui la domanda contiene già
la risposta: la logica del terzo escluso genera antagonisti e rapporti in cui
ognuno mira a prevaricare sull’altro, nella migliore delle ipotesi a omologare
e neutralizzare l’altro.
Di qui il passo alla narcotizzazione di massa è breve:
l’oppio, la religione, il rapporto istituzionale, la medicina ufficiale. L’irrappresentabilità
dell’alterità assoluta comporta l’affrancamento dalla logica binaria
oppositiva, la logica delle alternative buono/cattivo, bene/male, sano/malato,
tollerante/tollerato, normale/anormale. Non c’è padronanza, non c’è altra
proprietà, dice Verdiglione, che la proprietà intellettuale come risposta alla
questione come vivere, ovvero quali sono le proprietà del nostro viaggio, come
giungere alla qualità, alla cifra. L’autonomia dell’io è richiesta — è
richiesta “umanisticamente”— in nome di
un’eguaglianza contrattuale.
Il soggetto è il contraente e la sua proclamata
autonomia fornisce lo statuto della dipendenza, la sua strumentalizzazione per la trasmissione di modelli, per la
riproduzione dell’ordine costituito. Il contratto presuppone il dominio dell’uno
sull’altro, e, aggiunge Verdiglione riferendosi alla posizione di Thomas Szasz,
“non è il superamento dei modelli coercitivi (come vorrebbe Szasz), ma il loro
sostegno”. Ciò comporta una concezione dell’analisi e dell’analista diversa da
quella prospettata da Szasz: “Se la condotta dell’analista fosse guidata da un
codice (ermeneutico, morale, politico…), la sua funzione rimarrebbe quella di
sostegno dell’operazione psichiatrica. Se l’analista fosse l’agente del
paziente (Szasz), utilizzerebbe la domanda in funzione contrattuale e non
sarebbe per nulla diverso da un
funzionario.
In definitiva, se s’instaura, la funzione di potere
dell’analista può diventare più importante di quella istituzionale: e persino
il silenzio può
assumere allora, come lo sguardo, la funzione classica d’interrogazione”. Suicidio e padronanza, un paradosso del
discorso occidentale Semioticamente parlando, l’azione e la reazione
all’azione fanno parte di una catena di azioni e reazioni precedenti, sono una
risposta a esse, come tutte le nostre azioni e reazioni, e il tutto ha luogo in
un contesto — di ordine antropologico, politico, economico, storico, sociale,
culturale, ideologico. L’azione del suicidio e le risposte che provoca non
fanno eccezione, anch’esse sono la risposta a sollecitazioni, e nascono in
contesti sociali orientati secondo determinati valori e ideologie.
E quando parliamo di “azioni” e “reazioni” o
“sollecitazioni” e “risposte” non si tratta di descrivere comportamenti umani
in termini meccanicistici, tanto meno biologistici, come è tipico, invece, di
certi comportamentismi. Lungi dal trattarsi di reazioni immediate, persino
organiche, l’azione e la risposta da parte dell’individuo sono interpretazioni,
mediate da segni, del proprio ambiente che è fatto di oggetti, comportamenti,
persone, valori, orientamenti, eventi, a loro volta interpretazioni segniche,
mediate da altri segni, valori e ideologie, di altrettante sollecitazioni in
una rete aperta di relazioni interpretative. Bisogna che nel discorso dominante
ci sia “un soggetto ideale che assuma tutta la positività”, che faccia da
specchio morale del conformismo in modo che qualche soggetto se ne assuma la
negatività. Rispetto al soggetto
ideale, responsabile, capace, forte, efficiente, un altro soggetto
risulta e persino si riconosce irresponsabile,
incapace, debole, deficiente.
Critico dei dogmi e dei pregiudizi
sociali, siano essi quelli consolidati dal “buon senso” ordinario o quelli avallati da qualche credenza pseudoscientifica,
Szasz nei suoi scritti evidenzia con chiarezza il carattere mistificatorio del
modo comune di pensare, di dire e, di conseguenza, di trattare il fenomeno del
suicidio. Nei suoi scritti, infatti, egli evidenzia l’importanza del
linguaggio, del modo in cui le cose vengono dette, quindi degli usi e degli
abusi dei nostri costumi linguistici, prendendo posizione critica sia contro le
definizioni ufficiali della malattia mentale sia contro il linguaggio comune
che pretende di parlarne.
Il linguaggio comune rientra nello
“standard” e “Lo standard fa ordine, lo standard è la pazzia. Gratuita”, dice
Erik Battiston in La vita
oltre lo standard. “Lo
standard non è mai imposto. È prima somministrato e, poi, naturalmente
accettato perché gratuito, perché è il modo comune, il modo della
partecipazione. ‘Ne parliamo democraticamente’… Certo, basta parlarne. Basta
discuterne. Ma questo ‘basta’ è significato dal principio di sufficienza. Così
basta. Basta così! ‘Basta’ è sufficiente per mettersi d’accordo. Più o meno”.
Szasz è radicalmente critico della psichiatria e degli psichiatri, che egli
accusa di un cattivo uso del linguaggio collegato con la diffusa ideologia
della medicalizzazione della vita che controlla gli individui negando loro la
possibilità di scelta responsabile e libera.
Egli evidenzia le mistificazioni
che stanno alla base della progettazione delle pratiche sociali valutate come
“normali” e della giustificazione “scientifica” delle ordinarie modalità di
trattamento di chi è stigmatizzato come malato mentale, con tutti i risvolti e
le implicazioni che tale connotazione ha, non solo sul piano della vita
ordinaria e nel settore della clinica, ma anche nel sistema giudiziario e nel
modo di concepire, prevenire o punire il comportamento criminale.
Szasz
distingue tra malattia e comportamento, sostenendo che uno dei limiti del
linguaggio psichiatrico consiste nell’applicare figure metaforiche tratte dal
vocabolario della malattia a ciò che è comportamento, per discriminare
comportamenti devianti che variano dal meramente eccentrico al criminale, semplicemente
sulla base della confusione tra descrizione della malattia e valutazione di
ordine morale, etico, ideologico e politico.
Non si fa un solo passo nella
comprensione del fenomeno del suicidio dando a esso un giudizio di valore,
spesso pregiudiziale, ghettizzandolo e esorcizzandolo come sintomo di malattia
mentale, trattabile mediante farmaci “antidepressivi” e l’isolamento
dell’ospedalizzazione. La diffusa plausibilità di tali soluzioni dipende dal
fatto che si tratta di risposte facili e spesso di comodo.
Contrariamente a
coloro che ne affermano il carattere di malattia mentale, di ordine
chimico-organico, che lo considerano sintomo di crisi maniaco-depressiva o lo
additano come perversione del modo naturale di rapportarsi alla vita, che lo
condannano come offesa nei confronti dei perbenismi borghesi e delle varie
ipocrisie giustificate dalla giusta difesa di interessi egoistici e dal “sano” conatus essendi, anche il suicidio viene considerato da
Szasz come azione razionalmente motivata, messa in moto da un piano non meno
razionale di quelli che la società approva perché ne confermano l’ordine e
rafforzano il sistema che ne regola i rapporti.
Il suicidio è un fenomeno
sociale più che mai presente nel nostro mondo globalizzato, dove alle cause dell’invivibilità
della vita nel benessere e della sua invivibilità nella sofferenza, nella
miseria, nella malattia, si aggiungono quelle della sperequazione sempre
maggiore tra sviluppo e sottosviluppo, tra ostentazione di un potere
incontrastabile e impotenza di chi lo subisce senza tuttavia volersi rassegnare
e vi reagisce nelle forme più disperate, ma non per questo “anormali”,
“irrazionali”, “fanatiche”, “vili” se non agli occhi di chi ha interesse a
difendere a tutti i costi, fino a mentire a se stesso, il “proprio stile di
vita”, che naturalmente è normale, razionale, realizzato all’insegna della
libertà e della democrazia.
Sia il suicidio malgrado il “benessere”, sia il
suicidio dovuto “soltanto” a “fanatismo” hanno le loro motivazioni; e si tratta
di motivazioni di ordine sociale — economico, ideologico, politico, religioso,
giuridico, medico — che riguardano le modalità in cui sono strutturati i
rapporti interumani. Si tratta dunque d’indagare in maniera spregiudicata, il
che vuol dire effettivamente scientifica, le ragioni del suicidio nei suoi
molteplici aspetti e contesti. L’azione del suicida, come tutti i comportamenti
deviati, va analizzata in rapporto ai vari fattori e valori del contesto
sociale, oggi in rapido mutamento, che orientano i nostri comportamenti e
contribuiscono a determinare le nostre scelte — fattori economici, personali,
legali, politici.
Il suicidio, come il terrorismo con cui oggi lo vediamo
strettamente collegato, va considerato — è questa in sintesi la tesi di Szasz —
nel suo carattere essenziale di risposta comportamentale al sociale, al proprio
contesto ideologico e culturale, e non semplicisticamente come espressione
deviata dovuta a qualche alterazione patologica interna, di ordine “organico” o
“psichico”. Nel testo Se
vogliamo parlare senza infingimenti del suicidio, scritto in risposta all’attacco
dell’undici settembre 2001 alle torri gemelle, Szasz s’interroga sul suicidio
con specifico riferimento ai terroristi suicidi. Contro le dichiarazioni
superficiali degli imbroglioni, dei mistificatori, degli ottusi, dei tuttologi
e di coloro che riescono sempre a avere la coscienza in pace, egli afferma il
bisogno di un pensiero critico, scientifico e razionale.
È necessario
considerare criticamente il terrorista suicida e quindi il terrorismo — compito
tanto più arduo e scomodo quanto più ci costringe a guardare al di là dei
limiti delle eventuali ragioni personali, per interrogarci sulle grandi
progettazioni sociali, i nobili fini e le azioni umanitarie (con i loro
“effetti collaterali” del mondo “democratico”, rispetto al quale il terrorismo
si presenta come sintomo e risposta). Sempre, i nostri cosiddetti esperti, i
nostri politici, gli economisti, i commentatori di vario genere e competenza
nelle loro analisi sono partiti dal punto sbagliato: il terrorismo suicida come
causa, sfruttata per giustificare “guerre preventive” e “interventi
terapeutici”, anziché come risposta, sia pure non condivisibile — ma questa è
un’altra questione — a sua volta in una catena di risposte.
Senza cercare
facili soluzioni di comodo, rifugiandoci nell’idea della malattia mentale e dei
vari fanatismi, se vogliamo dare un valore alla vita, impegnarci a prevenire il
comportamento deviato, contribuire alla costruzione di un mondo secondo il
principio dell’ascolto dell’altro, la domanda molto semplice da fare è: che
cosa spinge al suicidio? Che cosa spinge un ragazzo o una ragazza alla
decisione di farsi esplodere?E quindi, quali sono le ragioni del suicida e, nel
caso specifico discusso da Szasz, quali sono le ragioni del terrorismo come
oggi si va configurando?
La libertà come proprietà del soggetto, come
padronanza, come libertà di fare ciò che si vuole si manifesta e si afferma, in
ultima analisi, come libertà di morire. Ne è espressione la rivendicazione del
diritto al suicidio. È certamente notevole e coraggiosa la presa di posizione
di Szasz contro la ghettizzazione e l’esorcizzazione del suicidio — in quanto
sintomo di malattia mentale, da trattarsi mediante farmaci antidepressivi e
l’isolamento dell’ospedalizzazione — e il suo impegno per il riconoscimento del
suicidio come azione razionalmente meditata, messa in moto da un piano non meno
razionale di quelli che la società approva, perché ne confermano l’ordine e
rafforzano il sistema dei suoi rapporti “normali”.
Ma, come rileva Armando
Verdiglione, è ritrovabile nella posizione critica di
Szasz ancora l’idea della libertà come proprietà naturale, e anche l’idea del
corpo come possesso del soggetto, che ne può disporre a suo piacimento. Le due
cose sono collegate: l’idea del soggetto e della libertà come sua dotazione
naturale implica il fantasma del possesso, della padronanza. “Nessuno stato,
nessuno psichiatra, nessun poliziotto”, dice Verdiglione, “può con la forza
rinchiudere e sequestrare una persona perché ha la propria idea di suicidio.
Ma
che la libertà sia quella di morire è la suprema padronanza che il discorso
occidentale, come discorso della morte, ha affidato al filosofo, all’uomo
perfetto. Entriamo così nel paradosso del discorso occidentale”. Malattia mentale e follia. Disagio, virtù
della parola Un altro
elemento di discussione a cui accennare in riferimento al libro di Szasz è il
rapporto tra malattia mentale e follia. Per Szasz, il mito della malattia è
anche il mito della follia, del genio folle. Ma come osserva Ruggero Chinaglia
nel testo L’istante della clinica, “Sin dal sorgere
dell’esperienza cifrematica, abbiamo distinto tra follia e pazzia”.
La follia è
“il modo con cui procede il cammino artistico di ciascuno. Questo situa la follia
nella particolarità della parola e implica che lo statuto intellettuale,
scientifico di ciascuna cosa è anche secondo la follia; ne deriva l’esigenza di
ricerca e di ascolto, d’intendimento e di cifratura: nessun soggetto folle,
quindi, ma la follia come proprietà oggettuale, di cui si tratta di cogliere la
varietà d’intervento e la specificità”.
Invece, nel testo La clinica della parola, Sergio Dalla Val scrive: “Considerata
malattia, la follia diventa visibile, può essere sottoposta allo sguardo medico,
all’occhio clinico, a quel principio del tutto osservabile, dunque
dell’osservanza, su cui il potere statale si fonda”. Come dice Armando
Verdiglione nella sua relazione tenuta al convegno Psicanalisi e politica, il primo da lui organizzato, l’8-9 maggio
1973, “Lo psichiatra è garante e gestore della produzione della malattia, è un
‘osservante’…”.
Come Verdiglione faceva già notare in alcuni suoi appunti
redatti subito dopo lo svolgimento del congresso La follia (Milano, 1-4 dicembre 1976) e riportati in La mia industria, l’espulsione della follia, soluzione di
alcuni regimi politici, data l’impossibilità della sua amministrazione, si
converte, tramite il riconoscimento dell’inesistenza della malattia mentale,
nella sua negazione insieme a quella della malattia mentale, perpetuando un
antico esorcismo.
L’attribuzione della follia da parte della mitologia
psichiatrica è collegata con l’assegnazione di ruoli e di posti, con l’idea di
padronanza, con la proprietà e l’appropriazione, con la denominazione e la personificazione
di ciò che è irrappresentabile. La follia è inattribuibile e insituabile in
quanto è collegata con la irriducibile materialità della parola. “Il disegno di
Escher”, scrive Verdiglione riferendosi alla figura riprodotta sul manifesto
del congresso La follia, “allude a un circo come metafora, preso in
un nastro di Möbius togliendo qualsiasi contemplabilità delle immagini perché
semoventi e altre, non disposte a vestire l’abito del buon senso secondo la
linea circolare”. Nel testo La vita originaria Verdiglione
scrive: “Se la conversione della pazzia in malattia mentale decide
definitivamente di attribuire il disturbo al soggetto, la follia è la
condizione del cammino artistico. La follia sottratta all’animale anfibologico.
Non è la follia paolina e nemmeno la follia della strega. La follia è sottratta
alla definizione che ne farebbe il limite della ragione. Non più funzione e
limite dell’economia discorsiva. La follia è inattribuibile al soggetto”.
La
follia va con il rigore. “Viaggia chi è senza genealogia, chi procede
dall’apertura originaria, trovando la sua condizione nella follia e nel
rigore.
Condizione sua e del viaggio”. Non c’è viaggio intellettuale senza
follia e
senza rigore. La follia non è soggettiva, ma oggettuale, risponde alla
struttura
materiale della parola; “follia e… rigore… sono le condizioni del
dispositivo
di parola”. La follia e il rigore, da oggettuali, subiscono una
soggettivizzazione, e mentre il rigore si tramuta in severità, in
rigidità,
quali prerogative del soggetto, la follia si tramuta in malattia. Dice
Verdiglione: “Che cosa la mitologia medica e psichiatrica chiama
psicosi? Qual
è il disturbo assoluto per tale mitologia? È la materia. La materia
della
parola, irriducibile al concetto, alla convenzione, al naturale, al
codice”.
Nel discorso dominante, la follia, come lo stress psichico (a cui fu
dedicato
un congresso internazionale dal titolo Stress.
La clinica della vita), è
collegata con la nozione di soggetto, sarebbe nel soggetto, sarebbe una
proprietà del soggetto.
Si tratta di mettere in discussione la mitologia della
follia e la mitologia dello stress con i loro professionisti e funzionari che
su tali mitologie prosperano, il che significa mettere in discussione la
mitologia del soggetto, la mitologia della sua rappresentazione, della sua
identità, della sua appartenenza, e dunque della rappresentazione
dell’alterità, della sua definibilità, giudicabilità. “Con l’illuminismo
incomincia a stabilirsi il ‘luogo’, quindi la reclusione, rispetto a un
problema sociale. Il presunto malato di mente veniva terrorizzato perché
trovasse l’illuminazione giusta. Dal rinascimento e dall’illuminismo in poi,
c’è una gestione differente della pazzia, che, prima, era soltanto inscritta
nella demonologia. È sempre opera di qualche diavolo: ‘Che diavolo hai?’. ‘Che
diavolo stai facendo?’. ‘Chediavolo stai
pensando?’. C’era quindi il fantasma di possessione.
Poi, dopo, viene
sostituito dal fantasma di alienazione. E alla base c’è il fantasma di
padronanza che è proprio del discorso occidentale. Tutto avviene come se il
‘discorso scientifico’, psichiatrico, medico avesse soltanto secolarizzato e
laicizzato il discorso demonologico. Dove veniva praticato l’esorcismo, viene
operato un intervento coercitivo che va dalla camicia di forza all’elettroshock,
allo psicofarmaco. Dove veniva praticata la confessione, si stabilisce la gamma
variegata della psicoterapia. Quindi psicosi, nevrosi, a seconda del grado,
della scala di ‘gravità’ del ‘male’. Allora, ci siamo chiesti: che cosa la
mitologia medica e psichiatrica chiama psicosi? Qual è il disturbo assoluto per
tale mitologia? È la materia. La materia della parola, irriducibile al
concetto, alla convenzione, al naturale, al codice. Questi sono i primi passi
compiuti rispetto alla cifrematica”.
Concluderò ricordando due considerazioni
di Verdiglione, in risposta al mio intervento durante il congresso del 2002, Stress. La clinica della vita, che mi sembrano abbastanza pertinenti con
la tematica di questo libro di Szasz. Si parlava di “disagio” dovuto alla
brevità del tempo di cui si può, per evidenti ragioni, disporre negli
interventi in un convegno di studi, ma anche spostandone il senso su un piano
teorico generale, e Verdiglione faceva osservare che il disagio è una virtù
della parola e non si può eliminare. Gli psichiatri, aggiunse, vorrebbero
trasformarlo in mentale, il disagio invece è una virtù del principio. “Nessuno
è padrone nella parola, della parola. Freud diceva che nessuno è padrone in
casa propria, supponendo che la casa sia contraddistinta dal tempo e, quindi,
che sia effetto del tempo”.
L’altra considerazione riguardava le mie
riflessioni su questioni di etica e sulla verità, che Verdiglione disse di
condividere, ma osservando che l’etica viene molto spesso scambiata con la morale
e ridotta a un luogo del conformismo, e sottolineava, per quanto riguarda la
verità, che la verità è effetto non causa. Se c’è un valore assoluto, questo è,
aggiunse, la qualità della vita, la qualità della parola originaria, la qualità
verso cui le cose si rivolgono: si può anche dire “il capitale”, in quanto
cifra della parola originaria. Ciò è ben lontano dall’idea dell’impero del
capitale. “L’idea dell’impero è assolutamente lontana dalla parola originaria
ed è assolutamente lontana dal capitale. Non c’è un capitale come sostanza
perché sarebbe l’altra faccia della morte. Il capitale sarebbe la morte come
capitale e la morte come sostanza, quindi avremmo la morte come colpa e la
morte come pena. L’istituto della vendetta fonda l’istituto della colpa e l’istituto
della pena, ma è un discorso della morte… Se ci troviamo nella parola
originaria, siamo lontani dall’idea dell’impero”.
È possibile intravedere, allora, qualche
differenza tra la critica di Szasz al mito della malattia mentale e la
dissidenza cifrematica. Nella sua critica alla psichiatria e alla psicanalisi,
i luoghi argomentativi della logica binaria e oppositiva permangono, permane la
morale, l’idea del soggetto come agente morale, l’idea del controllo e della
padronanza. C’è la mitologia dell’identità, a cominciare dall’identità sessuale
— “La maggior parte la ritiene [Virginia Woolf] malata di mente come se ciò
fosse un fatto, come il fatto che era inglese e che era una donna”—, c’è la mitologia dell’appartenenza, della
scientificità, della verità, della semiotizzabilità della materia, della
materia corporea ridotta a “organismo”, a “fisicità”.
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