Controllo psichiatrico e sociale
REMS: normative e paradossi
di Chiara Gazzola
Spesso le
normative relative agli ambiti assistenziali, sanitari ed educativi si rivelano
come un alibi per lo stato, una tutela difensiva da attuare nei confronti di
chi metterebbe a repentaglio “la convivenza sociale democratica”. Ecco che
allora si impreziosiscono sempre più i sistemi del controllo, validi per
l’utenza, per gli operatori e per la cittadinanza: a meritare rispetto e salvaguardia sono soltanto le
istituzioni, un’impersonale struttura ideologica alla quale deve far
riferimento chi non vuole rischiare
ritorsioni. Ingiustizia sociale e carenza di luoghi non strutturati, ove gli
individui possano condividere l’esigenza di soddisfare bisogni primari e
socialità, creano il presupposto per soluzioni calate dall’alto e regolamentate
ad hoc. Il dibattito si arena quando prevale l’esigenza istituzionale di
stabilire i rapporti di forza: da un lato, tramite il Codice Penale, si dettagliano
i crimini, dall’altro si inducono i contesti di marginalità affinché si possano
avviare gli interventi. Da questo punto di vista è la logica delle istituzioni
totali a nutrire la vasta rete dell’organizzazione assistenziale e a vincolare
ogni libertà professionale, evidenziando i paradossi strumentali che agiscono
in modo capillare sul controllo effettivo, preventivo e formativo.
Ogni luogo
edificato per togliere dalla circolazione chi viene ammantato da un artificioso
alone di pericolosità è di fatto una minaccia per la libertà di ogni individuo.
Alimentando la confusione fra libertà e privilegio, si strutturano le modalità
repressive.
Adrian Raine,
autore di The anatomy of violence, oltre ad offrire il suo contributo
alla criminologia deterministica,
sostiene che chi soffre di bradicardia (battito cardiaco rallentato) sia
predisposto alla paura e, di conseguenza, a reagire alle difficoltà con
comportamenti violenti. Gli esiti delle ricerche genetiche finalizzate a
trovare nel DNA la causa dei comportamenti asociali o reattivi si sono rivelati
inconsistenti e approssimativi; ora si insiste nel voler dimostrare le cause
organiche dell’aggressività affinché si possano giustificare gli interventi
“terapeutici” a tutela della società “sana”, interpretando questo termine con
il significato di “produttiva, normale e omologata”.
Ogni volta che
questi esperti elencano i criteri entro i quali collocare l’anormalità emerge
un nuovo paradosso, quello di confondere cause ed effetti. In alcune cartelle
cliniche dei reparti psichiatrici, senza alcuno scrupolo, viene enunciata
“l’innata incapacità di adattamento alla cultura ospitante” per descrivere le
contraddizioni vissute intimamente da alcuni migranti. Viene dato per scontato
che la capacità di adattamento sia un fattore naturale e non acquisito con
l’esperienza, che la cultura ospitante non debba mettere in discussione i
propri valori e, soprattutto, che non si critichi un modello di sviluppo nel
quale la tutela dei privilegi e il mantenimento delle disuguaglianze sociali
necessitano di strutturare il controllo.
Il linguaggio
innovativo utilizza termini come “inclusione”, “comprensione”, “reciprocità”:
parole che diventano aleatorie quando al cosiddetto utente non si lascia alcuna
scappatoia decisionale e i rapporti con gli operatori sono mediati da procedure
gerarchiche. Le nomenclature giustificano la coercizione ed elaborano i
contesti utili ad individuare le marginalità coatte.
Qualche anno fa
alcuni “sinceri democratici” gridarono allo scandalo e si adoperarono per la
“chiusura degli OPG” (ospedali psichiatrici giudiziari). Si stabilì l’apertura
di nuove strutture: le Residenze per l’Esecuzione di Misure di Sicurezza (REMS)
già nella dicitura si ispirano al Codice Rocco!
L’innovazione
riguarda l’esiguo numero dei pazienti ricoverati, per il resto si rimane in un
limbo fra sanità, vigilanza e punizione. La correlazione fra telecamere
collegate alle forze dell’ordine, vetri antisfondamento, sistemi di controllo
affidati alle prefetture e programmi terapeutici riabilitativi, che contemplano
letti di contenzione e coercizione chimica, descrive la realtà di queste
strutture sulle quali è calato un sipario oscuro. Sul sito dei ministeri ci
sono foto di villette con giardino e personale infermieristico sorridente, ma a
Castiglione delle Stiviere (sede di un OPG) sembra che il cambiamento vada poco
oltre la sostituzione della targa posta all’ingresso: vi sono ancora internate
più di duecento persone e, affinché la sua legittimità non venga messa in
discussione, è considerato un luogo provvisorio del sistema polimodulare delle
REMS. Questo raggiro idiomatico, utile a mantenere quasi intatte le vecchie
strutture, svela la concretezza delle istanze che hanno ispirato la
legislazione sul cosiddetto “superamento degli OPG”: a Volterra il padiglione
Morel dell’ospedale è una REMS e il suo aspetto è, a dir poco, inquietante.
Rifacendosi alle
misure di sicurezza detentive la legge, che istituisce le REMS, è un’appendice
del Codice Penale; occupandosi di “persone inferme di mente che hanno commesso
reati” può stilare protocolli per contenerne la pericolosità. É questo un altro
espediente per attuare il prolungamento della detenzione, o della libertà
vigilata, oltre i termini stabiliti dai tribunali. Le linee guida stabiliscono
che le attività terapeutiche debbano essere “personalizzate” (altro alibi per
giustificare i trattamenti più invasivi?), possano rientrare in una
riabilitazione vigilata “non detentiva” e prevedano una socializzazione
graduale, tanto che all’interno vi sarebbero “persino” il bar, luoghi di culto
(teoricamente non soltanto cattolici) e il parrucchiere!
Questi ricoveri
avrebbero la caratteristica di essere transitori e quindi non dovrebbero
diventare residenze di
lunga degenza; il tempo ci darà la possibilità di capire a quali altri luoghi
saranno destinati i cosiddetti “ospiti”. Sia nelle REMS, che in tutti gli altri
servizi psichiatrici, le terapie vengono
somministrate facendo riferimento a patologie prive di un’eziologia
scientifica. Gli stessi psichiatri ammettono che le diagnosi servono a
concretizzare “un linguaggio condiviso”, però prescrivono trattamenti lesivi
alla salute tanto da diventare la causa di conflitti relazionali, arginati poi
con altrettanti interventi contenitivi. Si alimenta così un vortice, un vicolo
tanto cieco quanto lo è l’ipocrisia insita nel voler escludere altre soluzioni
pur di non contrastare i protocolli sanitari.
Qualsiasi essere
vivente, anche il più docile, messo alle catene diventa aggressivo, ma si
continua ad usare lo stereotipo della presunta pericolosità per programmare gli
spazi di intervento di una “scienza” al servizio del controllo sociale e del
profitto. Ogni persona perde dignità e libertà se le verrà imposto un marchio:
la diagnosi psichiatrica è uno stigma permanente e discriminante.
Analizzando la
prassi psichiatrica nel suo complesso i dati sulla coercizione sono tutti in
aumento: uso di psicofarmaci, ricorso ai TSO (trattamenti sanitari
obbligatori), terapia elettroconvulsiva - non è cambiata da quando la si chiamava
elettroshock, semplicemente in alcuni casi viene applicata sotto anestesia-,
contenzioni di varia tipologia. E se anche i dati dei decessi sono in aumento,
non si cada nel tranello di considerarli “malasanità”: sono la punta di un
iceberg che nasconde drammi esistenziali sui quali la società chiude gli occhi
delegando le soluzioni a pratiche repressive giustificate da falsi paradigmi
medici, legislazioni e ambiguità normative.
chiara gazzola
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