Manicomi 2.0 sbarre in pillole
Lavorare con le voci di Ron Coleman e Mike Smith |
riportiamo un articolo di La Repubblica: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/03/15/manicomi-20-sbarre-in-pillole34.html
FRANCESCA SIRONI
PIOVE, FUORI. DENTRO, Giorgio indossa occhiali scuri. «Mi impone di pregare – racconta – insiste, è ostile. L'altra sera le ho chiesto: perché? Non ha risposto ». «Ha battuto in ritirata». Pausa: «Può darsi». È il turno di Mara: «Spesso le voci negative sono predominanti. So cosa vogliono: convincermi al ricovero. Portarmi in ospedale. Ma giovedì ho reagito. Ho detto no. E loro sono cambiate. Sono passate al "Ciao, come stai? Tutto bene?"». Albano Laziale, martedì pomeriggio. Come ogni settimana al centro di salute mentale si riuniscono gli "uditori di voci". Sono in dieci. Alcuni fremono per mostrare il diario su cui hanno annotato gli ultimi episodi, altri tacciono. Catia Chiappa e Claudio Marchini, i due coordinatori, li invitano man mano a riflettere su quanto stanno portando all'incontro: quali traguardi, quali strategie di difesa e contrattacco, quali mappe verso le radici delle erinni (le personificazioni femminili della vendetta, ndr) emergono nel confronto collettivo.
Le allucinazioni uditive spaventano. Sono sintomi facili da associare a diagnosi complesse di schizofrenia. Sono segnali "gravi" per i medici, tabù per i parenti. Sono demoni zittiti normalmente con psicofarmaci pesanti e tendenzialmente efficaci. Ma ogni settimana ad Albano, come in diverse altre parti d'Italia, sulle orme di un movimento internazionale che ha nell'inglese Ron Coleman il suo più famoso ambasciatore, piuttosto che reprimerle, («tanto poi tornano», borbotta Giorgio), gli "uditori" le voci le affrontano. Ci dialogano. Le sfidano. «Aiutiamo semplicemente chi soffre a conquistare più potere», spiega la coordinatrice. Sulle allucinazioni, certo, ma anche su se stessi e sul proprio futuro.
Dare più potere ai malati è la matrice di tutte le reti di "auto-mutuo- aiuto", telai che dal 1999 si sono evoluti per diventare gruppi di pazienti e familiari che partecipano attivamente ai percorsi di cura. Si fanno chiamare "Ufe" – utenti familiari esperti – e sono piccoli fari nei territori di confine della salute mentale. Una luce che è necessaria qui, nel Lazio come in tutto il paese. Perché se è vero che questa è una delle poche regioni in cui i trattamenti sanitari obbligatori – le cure psichiatriche forzate, imposte d'emergenza – sono aumentati (del 4,5 per cento nel 2014 rispetto al 2010) e dove un paziente su 10 è stato legato alle sbarre del letto, in reparto, è anche vero che nell'80 per cento dei 319 reparti psichiatrici d'ospedale d'Italia la porta è chiusa, a rappresentare una tendenza precisa: quella a tenere i malati in un nuovo manicomio fatto di sbarre ma anche di pillole. «La contenzione, oltre che ambientale e fisica, è spesso anche chimica: con l'abuso di farmaci per calmare i pazienti», denuncia Piero Cipriano, autore de Il manicomio chimico per Eléuthera. E per questo è nata a Trieste (dove le sbarre sono state eliminate del tutto, da tempo, e con risultati eccezionali) la campagna "Slegalo subito". Presentata pochi mesi fa, si prepara a diventare una commissione parlamentare d'inchiesta.
Le cinghie sono la spia di un sistema che sta arretrando, in molte province, rispetto alle aperture della legge 180. Trentasei anni fa, infatti, con la cosiddetta legge Basaglia, il legislatore disponeva la chiusura dei manicomi riconoscendo la crudeltà e l'inefficacia della contenzione e chiedeva per i pazienti psichiatrici l'istituzione di reti territoriali di supporto capaci di accompagnarli nella vita e nella gestione della malattia. I molti e importanti farmaci arrivati in questi decenni sono oggi un indispensabile supporto per questa missione. Ma buona parte della legge è rimasta lettera morta. E lo scorso aprile il Comitato nazionale di Bioetica è stato costretto a notare che «i reparti che usano la contenzione hanno alle spalle servizi territoriali "deboli", intendendo con ciò aperti per un numero limitato di ore, che non offrono sufficiente varietà di personale, con scarsi collegamenti agli altri centri e alla rete sociosanitaria».
Pochi psicologi o tecnici della riabilitazione, insomma, poche figure "leggere" con cui entrare in contatto. Meno sostegni, orientati più al "fuori" in città che non al "dentro" in clinica o in comunità. E tanti psichiatri «che firmano di norma prescrizioni con troppa sciatteria», commenta Cipriano. Così anche il disagio si trasforma, nell'abbandono, in malattia. I dati epidemiologici indicano chiaramente che la iniziale gestione delle sofferenze psichiche può portare al recupero. La trascuratezza, invece, ha conseguenze gravi: alla lunga «è ciò che produce davvero l'invalidità, come non riuscirebbe a fare, da sola, la malattia», riflette Marco D'Alema, direttore del dipartimento di Salute Mentale di Roma H.
Pietro li prendeva, prima, i farmaci, per zittire quelle voci che lo tenevano intrappolato in casa, aggredito dalle erinni. Poi ha incontrato gli uditori, e ha smesso. Tiene ancora gli occhi socchiusi quando parla. «Non mi piace perché mi dicono cose a casaccio, che io devo interpretare. Non mi piace perché dicono quello che gli altri pensano di me: che Pietro frequenta il centro, che Pietro ha problemi di nervi, che Pietro è pazzo. Ce gode, la voce, a famme sentì malato». «Ma perché è una malattia la nostra?», chiede allora Mara agli altri. «No: lo è forse per chi è bloccato sulle diagnosi. Ma voi siete solo persone che sentono le voci. E che imparano a gestirle», risponde la terapeuta Catia Chiappa. «Io non ci ho capito niente del mio passato », conclude alzandosi Eleonora, la più giovane del gruppo: «Ma una cosa la so: merito un'altra chance».
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Le allucinazioni represse con le medicine tornano Meglio starle a sentire
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