Chi vuole la libertà vigilata per i matti
Finisce in tribunale la
storia di un malato di mente travolto e ucciso da un’auto: i medici che lo
hanno dimesso sono stati accusati d’abbandono d’incapace
DACIA MARAINI
12
aprile 1991
pubblicato su EUROPEO 14/15 - 12 aprile 1991
Un uomo che era stato
chiuso in manicomio a 17 anni, giudicato nel lontano 1951 come schizofrenico,
oggi, nel 1988, grazie alle cure di medici intelligenti e generosi, si era
guadagnato la libertà di uscire ed entrare dall’ospedale in cui viveva. Una
mattina quest’uomo, che si chiama Corrado Orsi, decide di andare a fare una
passeggiata, come faceva da anni, e mentre cammina (tenendosi diligentemente
sul margine destro, come poi è stato testimoniato), viene investito brutalmente
da una macchina che lo lascia morto per terra. I vigili riconoscono la
colpevolezza dell’autista, le assicurazioni pagano la famiglia del morto.
Sembrerebbe un caso chiarissimo: un incidente
come ce ne sono tanti. Un irresponsabile come tanti altri, che considera
l’automobile un’estensione della sua volontà di potenza, e quindi corre, si
distrae, sbanda e finisce per travolgere un povero passante.
La procura di Bologna invece crede di dover
stabilire che ci sono degli altri responsabili: i medici che hanno permesso
all’Orsi di uscire dall’ospedale nonostante la sua dichiarata (nel 1951)
schizofrenia. E li hanno accusati di “abbandono di incapace”.
I medici incriminati, il dottor Antonucci,
medico curante, e il dottore Venturini, coordinatore dei servizi psichiatrici
di Imola, dicono che l’uomo stava bene, era in grado di uscire, di camminare,
di comprendere cosa facesse e dove andasse. Tanto è vero che da anni percorreva
la stessa strada senza mai aver avuto difficoltà. La prova che l’incidente non
è stato provocato da una cecità dell’Orsi ce la danno inoltre sia la polizia
stradale sia le assicurazioni riconoscendo la colpa dell’automobilista.
Ma il processo si farà lo stesso. Da una parte
il perito del tribunale professor Balloni, docente di criminologia
dell’università di Bologna, il quale sostiene, d’accordo con altri colleghi
della vecchia scuola, che la schizofrenia è irreversibile. Per cui, “un uomo
definito così nel 1951, nell’88 non è sicuramente in grado di camminare per la
strada da solo”. Dall’altra parte c’è il dottor Antonucci, il quale sostiene
“non solo non ho abbandonato l’uomo, ma gli ho dato il permesso di uscire. Il
paziente davvero abbandonato è quello rinchiuso”.
Il punto è proprio questo: può la schizofrenia
essere in qualche modo diminuita ridando al paziente la sua libertà di giudizio
e di azione?
Molti professori della scuola psichiatrica
tradizionale sostengono decisamente di no. Il malato, per loro, è destinato a
peggiorare e quindi va tenuto chiuso e curato con forti dosi di calmanti e di
elettroshock.
Altri, coloro che si riconoscono nella nuova
psichiatria, coloro che sono stati vicini a Basaglia sostengono invece che la
schizofrenia non è affatto incurabile. D’altronde, se no, perché si curerebbero
i malati, solo per torturarli o per renderli innocui?
Il dottor Antonucci ha chiesto a questo
proposito una “memoria tecnica” al grande Thomas Szasz della università
americana di Syracuse, famoso in tutto il mondo per la sua critica al concetto
di malattia mentale. Szasz ha risposto con una bella lettera in cui dichiara
che una persona classificata schizofrenica e con qualunque etichetta psichiatrica
ha la capacità e il diritto di vivere fuori dall’istituzione, anche dopo un
lungo e arbitrario internamento.
Sono chiaramente due modi diversi di affrontare
il concetto di malattia e di responsabilità. Lo stesso avveniva una volta con
le persone considerate “incapaci” di pensare a sé. Fra queste cerano anche le
donne, per secoli ritenute delle minorenni a vita, bisognose di tutela legale e
familiare.
Paradossalmente proprio il dottor Antonucci,
che da anni si dedica alle persone che vengono rinchiuse come “malati di
mente”, oggi viene accusato di “abbandono di incapace”. Proprio lui che, come
tutti sanno a Imola, è uno dei pochi a fare il tempo pieno in ospedale, uno che
ha scelto di rimanere accanto ai ricoverati notte e giorno, uno che ha compiuto
dei veri e propri “miracoli” di recupero riportando alla vita sociale dei
degenti considerati “irrecuperabili”, puntando solo su un lavoro di paziente e
amorosa partecipazione. Io stessa ho avuto modo di conoscerlo e di conoscere i
suoi pazienti riconquistati alla vita familiare dopo anni di una segregazione
che li aveva resi di fatto “pericolosi” a sé e agli altri.
Ma è proprio questo paradosso che fa da spia a
una volontà punitiva le cui ragioni stanno al di là di questo caso e rivelano
l’affermazione di principi politici regressivi e autoritari che in questo
momento sentiamo incombenti nella vita sociale del paese.
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