Avevo
sei anni, e così, infine, tutti i sintomi della mia presunta malattia mentale,
come giocare nel cortile sul retro dove facevo torte di fango e scappavo dai
bimbi più grandi di me quando mi minacciavano, come raccogliere fiori nel
giardino del nostro vicino e fare la lotta con la mia sorellina e soprattutto,
essere nato da una madre pazza, sono arrivati ad un punto cruciale. Ero quindi
ufficialmente schizofrenico, con la dimostrazione che la malattia l’avevo
ereditata.
La
signorina Callaghan dichiarò che dovevo essere messo nell’Ospedale Bellevue, per diventare un animale da
esperimenti per la dottoressa Lauretta Bender, che era una dei più importanti
psichiatri infantili di quel tempo, e che aveva bisogno di bambini in
affidamento, per sperimentare l’elettroshock su di noi.
Doveva
essere interessante vedere cosa poteva succedere!
Il
servizio di tutela dei minori che avrebbe dovuto proteggermi era felice di
fornirle i bambini.
Non
ricordo nulla di come sono arrivato lì e molto poco di quello che ho realmente
vissuto in quel periodo. Ma, cosa molto insolita per una vittima di elettroshock,
ho alcuni ricordi; ricordi di eventi che si sono verificati più e più volte.
Ora,
molti anni dopo, scrivendo da adulto, posso solo immaginare tutto il terrore
che devo aver provato quando sono stato strappato dai miei genitori adottivi.
Ma forse è per pietà che non riesca a ricordare.
Al
Bellevue ho dormito in quello che mi
sembrava, piccolo com’ero, un gigantesco corridoio freddo, dove di notte
echeggiavano rumori strani e spaventosi, con un soffitto alto come il cielo.
Anche le finestre arrivavano fino al soffitto, ma non erano state pulite da
molti anni e il corridoio era sempre buio, anche durante il giorno, anche
quando fuori splendeva il sole. Il mio letto, corredato da un duro materasso
sporco che puzzava tremendamente e una coperta verde oliva, era tutto solo nel
corridoio.
Non
sapevo perché ero stato tenuto da solo nel corridoio. Avrei voluto stare con gli altri ragazzi del reparto.
Ricordo vagamente che era stato detto che il reparto non aveva abbastanza
spazio, ma perché non avevano messo qualche altro ragazzo là fuori, così avrei
avuto qualcuno con cui parlare?
Non
c'era nessuno che mi sentiva piangere, ma poteva essere meglio così, perché
avevano detto che il mio pianto era un sintomo della mia malattia, e forse se
avessi continuato a piangere, sarei rimasto lì per il resto della mia vita.
Non
c'era nessuno di notte, a sentirmi urlare quando l'uomo veniva a violentarmi.
A
volte la dottoressa Bender appariva durante il giorno, arrivava passando dalla
porta dell'ascensore al centro del corridoio, circondata dai suoi protettori,
molti assistenti che sembravano adorarla, o forse avevano solo paura di lei,
come anch’io. A volte passava molto vicino a me, mi guardava, ma non mi
riconosceva, come se io non esistessi.
Ed
era freddo, tanto freddo. Era l’inverno di New York City, e avevo solo una
coperta, anche se a volte gli assistenti più gentili avrebbero voluto metterne
un’altra sul mio letto. Ma sembrava sempre che scomparissero. Mi svegliavo
rabbrividendo, ma non trovavo alcuna posizione che mi avrebbe tenuto al caldo.
Pensavo
a casa mia, ai miei genitori e alla mia sorellina, e alle simpatiche insegnanti
che ho avuto a scuola, e mi chiedevo se li avrei mai visti di nuovo. A volte,
appena dopo gli elettroshock, era molto difficile ricordare casa mia e tutto
quello che sapevo era il mondo che conoscevo in quel momento, gli
elettroshock e la solitudine e il
freddo.
Avrei
voluto che avesse un termine e volevo morire.
Segui, segui, segui dolcemente in barca la corrente.
Stai allegro, stai allegro, la vita è un sogno solamente…
Quasi
tutte le mattine, tutti i ragazzi marciavano verso l'altro lato del corridoio,
nel reparto delle ragazze. Là dovevamo cantare e mostrare quanto eravamo felici
e normali, ma io non l’ho quasi mai fatto. Gli assistenti facevano pressione
per farmi cantare, dicendomi come il non cantare fosse un segno della mia
malattia, e avrei dovuto cantare se volevo stare meglio.
Le
mattine in cui dovevo essere sottoposto agli elettroshock, non mi davano la
colazione, così sapevo cosa sarebbe successo. Quelle mattine, mentre gli altri
bambini cantavano obbedienti, avrei voluto piangere senza fermarmi.
Presto
si sarebbero fatti vivi tre assistenti e avrebbero iniziato a trascinarmi giù per
il corridoio, verso una stanza vicino alla corsia dei ragazzi, dove facevano
gli elettroshock. Avevano imparato a fornire un sacco di personale, perché
quando lottavo così duramente, era impossibile per una sola persona controllarmi.
"Non
voglio andare all’elettroshock, non lo farò!" Prendevo a calci, cercavo di
mordere i miei rapitori, cercavo di sfuggire alla loro presa. Ma mi
trascinavano lungo il corridoio e mi buttavano violentemente sul tavolo dell’elettroshock,
dove in molti di loro mi tenevano giù. Mi ficcavano uno straccio in bocca e giù
per la gola, facendomi soffocare.
E
quella era l'ultima cosa che ricordavo, fino a quando mi svegliavo in una
stanza buia da qualche parte. Spesso mi svegliavo nella stessa stanza con Stanley,
un ragazzo molto grande di circa tredici anni. Ero terrorizzato da Stanley,
anche se non so perché. Qualunque poteva essere stata la ragione, si perde nel
buco nero che lo shock aveva creato.
Avevo
imparato a cercare di memorizzare il mio nome, a concentrarmi sul mio nome,
così che dopo lo shock me lo sarei ricordato. Teddy, io sono Teddy, io sono qui
in questa stanza, in ospedale. E la mia mamma è andata ... Vorrei piangere e
rendermi conto quanto ero stordito. Il mondo roteava intorno e tornarvi faceva troppo
male.
Voglio
scendere, voglio andare dove l’elettroshock mi manda, non posso più combattere
e voglio morire ... e qualcosa mi ha fatto continuare a vivere, e per vivere
dovevo ricordarmi di non lasciare che nessuno si avvicinasse più a me.
L'uomo
è venuto al mio letto, il mio isolato piccolo letto nel grande corridoio, e ha
afferrato la mia testa e costretto la mia bocca contro il suo pene. Poi ha
tolto la mia camicia da notte ospedaliera e ha cercato di girarmi. Ho lottato,
e lui mi ha afferrato e mi ha sbattuto giù, colpendo la testa contro il telaio
del letto, fino a stordirmi ....
Il
mio fondoschiena mi faceva male tutto il tempo e mi sanguinava. Avevo un gusto
terribile in bocca che non era davvero lì, ma non se ne andava mai via.
Mio
padre era venuto a farmi visita e gli dissi quello che l'uomo mi stava facendo.
Piangevo,
come facevo quasi sempre.
"Papà,
ti prego, fallo smettere. Non lasciare che mi faccia questo."
Mio
padre sembrava molto turbato.
"Ne
parlerò con il medico."
Mi
ha di nuovo fatto visita.
"Teddy,
hai immaginato tutto. Il dottore dice che hai immaginato tutto."
L’ho
immaginato. Mio padre dice che l’ho immaginato.
Mio
padre non si preoccupa di quello che mi succede.
Voglio
morire.
Quasi
ogni sera l'uomo veniva al mio letto nel grande corridoio e mi violentava. Poi
si è fermato.
E
poi una notte ho sentito una bambina, le cui urla attraversarono il grande
corridoio. Ho riconosciuto la sua voce. Era una bella bambina della mia età,
che mi è capitato di vedere nella corsia delle ragazze. Anche a lei facevano
gli elettroshock, perché nei giorni in cui non mi davano la prima colazione,
non la davano nemmeno a lei. Come me, nemmeno lei cantava, non cantava e non
celebrava la nostra infanzia felice, come avremmo dovuto fare. Lei era molto
più colpita di me dagli elettroshock e non disse quasi mai nulla, si limitava a
sorridere con aria assente.
Doveva
essere il suo letto che ho visto nel corridoio, quando ci portavano nel reparto
delle ragazze a cantare e festeggiare.
La
sentivo quasi ogni notte nel sonno e mi svegliavo, anche se durante il periodo
degli elettroshock, non ero mai né completamente sveglio, né completamente
addormentato.
E
anche adesso, tanti anni dopo, a volte viene da me nei miei sogni, la bella
bambina che grida di terrore e di dolore.
E
così, nel maggio del 1944, dopo essere stato violentato e ucciso più e più
volte, finalmente sono stato rilasciato dal Bellevue.
Il ragazzino che era stato portato lì per essere torturato non esisteva più.
Tutto ciò che restava di lui, erano un paio di frammenti di memoria e uno spirito
rotto, e il resto erano ceneri in un gigantesco pozzo buio, mescolate con le
ceneri di centinaia di altri bambini che erano stati torturati e bruciati vivi
dalla dottoressa Bender, un leader nella sua professione.
E’
stato due mesi dopo il mio settimo compleanno, ma non mi ricordo il mio
compleanno. Non mi ricordo nulla dei mesi successivi, ma alla fine mi sono ritrovato
a casa mia nel Bronx, mentre cercavo di ricordare chi ero.
Adesso
ero così terrorizzato che mi aggrappavo a mia madre e avevo paura di uscire per
un po’.
Infine,
ho preso il mio triciclo e ho percorso tutto il quartiere, molto fiducioso,
come avevo sempre fatto, perché conoscevo ogni isolato. Ma improvvisamente mi
resi conto che non sapevo dove mi trovavo, e fui preso dal panico. In qualche
modo un vicino di casa gentile mi portò a casa, ma avevo paura di condurre di
nuovo il mio triciclo. Di solito avevo un senso di libertà, mi sentivo grande e
avrei potuto andare con il triciclo ovunque, ma questo ora era sparito.
Un
bambino di nome Karl, circa della mia età, è venuto a casa nostra a farmi visita.
Mi hanno detto che abitava molto vicino a noi, all’angolo a sole due case di
distanza. E mi è stato detto che era stato il mio migliore amico, ma non sapevo
più chi fosse.
La
signorina Callaghan disse che la mia perdita di memoria era un pessimo segno.
Significava che non stavo meglio.
Ted
Chabasinski, J.D.
Ancora
Pazzo Dopo Tutti Questi Anni: Ted Chabasinski, ora avvocato per i diritti dei
pazienti, è stato portato via dai suoi genitori quando aveva sei anni, hanno sperimentato
su di lui l’elettroshock, e poi inviato ad un ospedale statale per il resto
della la sua infanzia. Scrive sul potere della psichiatria e dei suoi abusi,
soprattutto nei confronti dei bambini.
traduzione di Erveda Sansi
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