Quando negli anni novanta si aprì la discussione sui campi per Rom fui fortemente impressionato da alcuni paralleli con quanto avevo visto negli anni precedenti seguendo il lavoro di Giorgio Antonucci negli ospedali psichiatrici. Qui mi trovavo di fronte a persone che insistevano perché venissero approvate leggi regionali che istituzionalizzassero l’esistenza di campi per nomadi, sostenendo che i Rom erano incapaci di vivere tra la gente (tra ‘noi’), che erano nomadi e che promuoverne l’integrazione sarebbe stato un atto di violenza, mentre i Rom stessi dichiaravano di non essere affatto nomadi, di non aver mai vissuto in campi e di non volerne sapere: chiedevano case, lavoro, scuole per i figli. Là, negli ospedali psichiatrici, avevo visto la pretesa da parte degli psichiatri di curare persone giudicate, anche in questo caso da loro, incapaci di vivere tra la gente, internandole magari per anni; e mi era stato mostrato come questo non avesse niente a che fare con la realtà in cui erano vissuti e che volevano vivere i ricoverati. Nell’uno e nell’altro caso alcune autorità pretendevano di fare gli interessi di altri e di curarne i diritti, mentre i diretti interessati chiedevano, in un modo o in un altro, cose del tutto diverse: e per prima cosa la libertà di scelta. Venivano a cozzare così due concezioni del tutto opposte del concetto di diritto: un ‘diritto’ difeso autoritariamente da alcuni, che si dichiaravano esperti e affermavano l’incapacità di quegli altri di difendersi, ed un diritto reclamato dai diretti interessati ed appoggiato da persone che traevano le loro convinzioni e le loro conclusioni dalla volontà di quegli stessi che gli esperti consideravano incapaci a vivere secondo le loro idee. Né nel campo della psichiatria né in quello dei Rom il dibattito è chiuso, tolto il fatto che i Rom stessi hanno cercato il modo di disfarsi degli esperti e di prendere in mano le redini del loro destino. Gli oggetti delle attenzioni degli psichiatri, invece, quelli che vengono definiti ‘malati mentali’, sono ancora costretti a subire la volontà di coloro che li trattengono nei loro ‘ospedali’ non essendo essi ancora riusciti a imporre – cosa, del resto, realisticamente quasi impossibile - o non avendo ancora ottenuto da chi li appoggia – cosa anch’essa ad oggi solo in pochi casi possibile per il rapporto di forze contrario - la loro libertà.
Perché è così difficile per i ‘ricoverati mentali’ (oggi vittime più di prigioni chimiche che architettoniche) ottenere la libertà di decidere il loro destino? Proprio perché vengono definiti malati e perché la psichiatria, a differenza di quelle pseudo-antropologie che hanno tentato di imporre la loro idea dei Rom, vive all’interno di un comparto il cui potere, anche storico, è enorme e non è, nel suo insieme, criticabile: la medicina. I Rom invece possono difendersi chiamando apertamente razzista chi voglia opprimerli ed il razzismo, per quanto oggi ancora –anzi sempre più – diffuso è, dopo la scoperta degli orrori dei lager della Germania e dei ghetti del Sudafrica oggetto di dibattito e di condanne a livello mondiale.
Un libro uscito recentemente riapre però il dibattito – in realtà mai chiuso, come si diceva, se pur costretto in limiti ristrettissimi – sul rapporto tra psichiatria e medicina, tra cura e danno e tra diritti reali e ‘diritti’ imposti. “Sorvegliato Mentale: Effetti Collaterali degli Psicofarmaci” di Paola Minelli e Maria Rosaria D’Oronzo, ed Nautilus, Torino, è un manuale ragionato dei farmaci usati dagli psichiatri per ‘curare’, cioè rinchiudere chimicamente, i loro pazienti e degli effetti ‘collaterali’ (ma che dovremmo chiamare reali in opposizione a quelli pretesi ) che questi farmaci hanno sulla salute: su quella vera, quella fisica. Effetti sempre negativi, a volte tremendi, che vanno dalle convulsioni a danni definitivi ed irreparabili. Per curare che? Opinioni. Opinioni di singoli, contrarie al sentire comune e giudicate quindi segno di malattia. Oppure per eliminare brutalmente contraddizioni interne, sempre di singole persone già di per sé impossibilitate a difendersi: quelle contraddizioni in cui ciascuno di noi potrebbe trovarsi e che spesso generano drammatiche, paralizzanti, incertezze. Da capire. Da affrontare con il rispetto che le stesse autrici del libro mettono giornalmente in pratica nel loro lavoro. Per gli psichiatri, invece, malattia, schizofrenia: da estirpare, con ogni mezzo.
In un bel saggio del 1939 su alcune peculiari fisime di Jonathan Swift, Aldous Huxley ( l’autore di Bravo Mondo Nuovo, romanzo/manifesto sulla possibilità di asservire persone per mezzo di sostanze chimiche e sul tipo di regime assoluto che ne deriverebbe ) scriveva: “ Le nostre menti, come i nostri corpi, sono colonie di vite separate che convivono in una condizione di simbiosi cronicamente ostile; l’anima è in realtà un grande conglomerato di anime e il nostro comportamento è, in qualunque dato istante, il prodotto di questa loro guerra infinita.” In quello stesso anno 1939 gli psichiatri Cerletti, Bini (italiani) e Kalinowski (tedesco) perfezionavano l’elettroshock, cioè l’uso di violente scariche elettriche per curare la malattia delle contraddizioni, la schizofrenia. L’idea di usare l’elettroshock su persone partiva, com’ è noto, dall’osservazione del metodo usato nel macello di Roma per anestetizzare i maiali prima dell’uccisione.
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