Cara redazione,
la piacevole sorpresa di trovare nelle vostre pagine sia un giudizio positivo a proposito della mia introduzione alla raccolta di prose e poesie zingare Romané Krle, sia una scheda su L'urbanistica del disprezzo curato da Piero Brunello, libro pubblicato e poi dimenticato sia dall'editore manifestolibri sia da buona parte dell'Arci che pure vi aveva collaborato, e a cui ho contribuito con due articoli, mi spinge a scrivervi. Non lo faccio tanto per ringraziarvi, ché, dato l'argomento, sarebbe fuori luogo, quanto per invitarvi ad affrontarlo ancora, dando cioè maggiore spazio ai problemi in cui si dibattono i rom. E' una questione che a molti appare non chiara, e proprio per questo dovrebbe ottenere ancora più rilievo in pagine libertarie.
Il "problema degli zingari", come ho già scritto più volte, visto cioè come "problema" da chi non è rom, è una vecchissima invenzione del mondo non rom. Siamo stati noi non rom, come società dominante, a creare le premesse per una divisione quasi invalicabile tra rom e non rom, e forse addirittura a inventare il mondo zingaro come tale. Secoli di bandi e di persecuzioni contro zingari e vagabondi ne sono la prova. Perfino il termine con cui sono più spesso definiti, cioè "nomadi", è nato -perlomeno quando fu applicato ai rom- non con lo scopo di descrivere un modo di vivere, ma con quello di segregarli, in maniera più subdola, ma non meno efficace, di quanto si fece con il termine "asociali" attribuito loro dai nazisti. Prova ne sia la sua sopravvivenza come concetto ispiratore delle recenti, e ancora mai sufficientemente criticate, leggi regionali e dei loro infami prodotti, i "campi nomadi".
I primi scrittori ad usare "nomadi" parlando di zingari, tra cui Adriano Colocci, autore nel 1889 della prima voluminosa pubblicazione italiana Gli zingari, storia di un popoloerrante (con sottile gioco tra i significati di "errare" come "girovagare" e come "sbagliare", come infatti viene spiegato ben presto nel testo) furono subito criticati sul piano linguistico da filologi che sapevano il loro mestiere come De Nino, che non vedevano giustificazioni all'uso distorto di un vocabolo antico e radicato: "nomadi uguale pastori".
Se noi paragoniamo le umanissime e indignate pagine di Elisée Reclus dedicate nella suaGeografia universale ai Bohemiens -come venivano chiamati allora i rom e a cui egli attribuisce, sia pure con diverso intento, il termine "nomadi"-, con quelle positivisticamente "scientifiche" e alla fine sprezzanti del Colocci, ci renderemo conto di quanto queste opposte posizioni morali e politiche influissero (e ancora influiscono) nelle visioni gagé (cioè nostre, non rom) dei rom: mentre in Colocci "nomadi" ha significato poco meno che di randagi, in Reclus ha valore di emarginati, scacciati, deportati.
Cito da appunti presi anni fa e frettolosamente tradotti dal libro di Reclus, L'homme et la terre (Libraire Universelle, Paris 1905): "nei paesi civili d'Europa i Bohemiens sono oggi considerati come non appartenenti al genere umano. Quali appestati li si costringe in campi fuori dalle città e dai villaggi. Per loro vengono inventati i più assurdi regolamenti di polizia basati sul sospetto e sulla pura violenza mentre vengono spinti quasi a forza verso il furto e l'illegalità ponendo di fronte a loro ogni sorta di impedimenti al commercio e al lavoro. Da certe zone vengono deportati in massa [...] Sospettati e colpiti da pregiudizi, scacciati dalle campagne, sbattuti fuori dalle città, non resta loro, pena la morte per fame, che tentare di disperdersi tra il proletariato. D'altra parte essi sono sempre così poco presi in considerazione da far pensare che le leggi - tolte quelle repressive - non fossero state concepite anche per loro. Sono stati continuamente imprigionati e deportati in base a semplici ordinanze amministrative prive del minimo appiglio giuridico".
Sono parole che potrebbero essere state scritte oggi, nei giorni cioè dei campi per nomadi, delle ordinanze di sgombero con tanto di blitz, e delle deportazioni in massa di nuovo minacciate in Italia e già effettuate in Germania.
Purtroppo col tempo ha finito per prevalere la visione di Colocci, di Lombroso, di Capobianco (un giudice dei primi del '900 autore di un libro contro gli zingari).
Sembra quasi che il genocidio subito dagli zingari abbia in qualche modo confermato, invece che eliminato, i pregiudizi nei loro confronti e dato più spazio ai pretesti, con l'appoggio ingenuo di un numero impressionante di brave persone piene di buona volontà e di altrettanto conformismo.
I rom (a dispetto di chi ha in testa schemi belli e prefabbricati) sono, assai terra terra, tutti diversi gli uni dagli altri per storia e mentalità e tutti pieni di idee e ambizioni diversificate. Ci sono giovani che sognano di fare i bancari, gli avvocati o i professori universitari, giovani che pensano alle discoteche, e altri che non hanno prospettive. Ci sono anziani che sospirano i tempi andati quando giravano le campagne a vendere pentole di rame e ce ne sono altri che, bloccati nei campi italiani, ricordano con nostalgia le case di Skopije e di Pristina o quelle di Sarajevo, Mostar o Banja Luka bombardate o in mano ai serbi.
Ci sono sinti che si rinchiudono in piccoli campi autogestiti dedicandosi a vecchi o nuovi artigianati e sinti che imprecano contro i nuovi sistemi di tassazione che impediscono loro di sopravvivere viaggiando con i luna park, sinti che vivono in enormi e costose roulotte e sinti che restaurano case diroccate per mettere su scuderie. E ci sono tanti, tantissimi rom disoccupati, costretti a mendicare (molti dei quali per la prima volta, da quando cioè sono in Italia).
E' un mondo che, nell'insieme, racchiude una cultura composita, viva, con tradizioni antiche, ma fatto di gente impaziente di vivere nell'oggi, come tutti - tanti esseri singoli spesso schiacciati da forze enormi.
Sono contro di loro i pregiudizi e gli stereotipi, le leggi (pensiamo a quelle sull'immigrazione per coloro che provengono dalla ex Jugoslavia) e le già ricordate norme regionali; sono contro di loro -con discriminazioni subdole ma feroci- una buona parte dei pubblici impiegati, che contribuiscono alla loro condizione di continua irregolarità. Ho sotto gli occhi quello che scrisse Camillo Berneri dopo essere andato "in cerca degli zingari, al nord di Berlino, dove, su terreni vaghi, hanno la zona loro riservata", nel 1936. "Grava su di essi - scrisse Berneri - la minaccia baffuta e luccicante del gendarme e gli sguardi di sbieco della gente" (Pensieri e battaglie, Parigi 1938, pp. 195-198).
Ecco perché sarebbe bene, credo, che "A" dedicasse un po' di spazio a riconsiderare tutta la questione, interpellando i diretti interessati. Forse potrebbe nascere qualche proposta sensata e concreta al posto delle tante, assurde, che circolano - un'analisi seria da cui potrebbero prendere avvio provvedimenti positivi (come inutilmente intendeva fare chi di noi ha dato vita al libro L'urbanistica del disprezzo).
Oggi, stritolati tra buoni sentimenti e rancore, assistenzialismo e repressione, tutela e disprezzo, buonismo e ostilità, disinteresse per le loro vite e interessi politici ed economici da parte di chi dice di aiutarli, i rom, gli uomini le donne i bambini, hanno ben pochi appigli a cui aggrapparsi per sopravvivere.
Fraterni saluti,
Piero Colacicchi (Firenze)
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