Eoni fa, quando avevo 25 anni, l’unica ambizione che avevo
era quella di uccidermi. Nonostante fossi riuscita ad accumulare tutti i segni
del successo esteriore – un lavoro, un appartamento, un compagno – ero
paralizzata dalla miseria. Non riuscivo a superare il fatto che qualche anno
prima ero stata psichiatrizzata quasi a morte.
Non credevo nella psicoterapia, ma, disperata, mi ero messa
nelle mani di un tipo anziano e molto dolce che praticava la “programmazione
neurolinguistica”. Quasi sempre cercava di farmi andare in trance, ma non ci
riusciva. Una volta mi ha messo a testa in giù, prendendomi per le caviglie e usando
un’imbracatura sospesa dal ramo di un albero; mi aveva assicurato che oscillare
avanti e indietro dolcemente, avrebbe corretto il mio respiro e i miei problemi
psicologici sarebbero miracolosamente evaporati. Un’altra volta mi aveva
lasciato fumare uno spinello nel suo studio, con la sua amica infermiera che mi
osservava e prendeva appunti. Ho apprezzato il tempo e gli sforzi considerevoli
che ha impiegato nel tentativo di aiutarmi, però non mi hanno fatto per niente
bene.
Guardando indietro, l’unica cosa che poteva aver avuto qualche
senso era chiedermi:
“Come faresti a capire di stare bene?
Senza esitazione ho risposto: “Starei scrivendo.
Mi hanno insegnato a scrivere prima di iniziare la scuola. A
sei anni ho sfornato libretti che trattavano di principesse, animali e tutto
ciò che riguarda una bambina di sei anni.
Poi ho scritto storie, poesie, ho disegnato fumetti, sovente
proprio quando ci si aspettava da me che prestassi attenzione alla lezione di
scienze, storia o matematica. Quando ero una teenager ho scritto poesie
complesse e tuttora penso siano
veramente buone! Questo succedeva prima che il mio cervello venisse rivoltato
dagli psicofarmaci.
Quando avevo 20 anni ed ero rinchiusa nel mio primo reparto
psichiatrico, ci sono voluti tutti i miei sforzi e tutta la mia concentrazione
per produrre questo:
Non mi è
permesso questo
Non mi è
permesso quello
E ci si
sorprende
se sto diventando
pazza?
Era il 1978 ed ero rinchiusa da mesi al North York Branson
Hospital. Tenevo questo quaderno in cui scrivevo e disegnavo nel miglior modo possibile.
Che non era un granché, a causa di tutto quel Haldol che mi facevano prendere.
Non ho memoria di come mi sono ispirata a creare il mio
primo eroe dei fumetti. L’Uomo Domanda.
L’Uomo Domanda mi ha fatto da migliore amico e da alter ego,
aiutandomi a superare le lunghe giornate vuote del reparto psichiatrico. Non
era disegnato bene e non era nemmeno troppo intelligente, ma in qualche modo mi
andava bene lo stesso.
Barcollavo attraverso le giornate
in un imbarazzante stato di confusione, mi perdevo nel reparto nonostante la
sua struttura semplice. Entravo al bagno con lo spazzolino in mano e non mi
ricordavo che cosa stavo facendo lì. L’impossibilità ad orientarmi, a riuscire
a tenere a mente un compito anche semplice abbastanza a lungo da completarlo,
era bruttissimo.
Ma quando l’Uomo Domanda era
confuso, era quasi delizioso. Mi sentivo debilitata e stupida, mentalmente e
fisicamente. Non riuscivo a capire come questa cosa così terribile stesse
accadendo a me – come fossi arrivata a vivere in questo posto orribile. Pensavo
fosse colpa mia. Volevo gridarmi contro per come i pensieri continuavano a
sciogliersi nella mia testa.
Ma l’Uomo Domanda poteva giocare
con queste idee invece di autoaccusarsi.
Non avevo idea di come uscire dal
profondo buco in cui ero caduta, questa incapacità di essere normale, di star
bene – di essere a malapena capace di scrivere.
Dentro di me, lo smarrimento era
terrificante. Nell’Uomo Domanda ispirava affetto.
Non capivo come potessi essere
completamente tagliata fuori dalla mia famiglia, dai miei antenati. Nessuno di
loro era mai stato pazzo, per quanto ne sapessi. Perché tutti gli altri avevano
una testa vera, con dentro un cervello funzionante, mentre tutto quello che
avevo io al posto della testa era questo palloncino malfermo, riempito con uno
strano, pesante elio del colore del Haldol?
Barcollavo attraverso le giornate
in un imbarazzante stato di confusione, mi perdevo nel reparto nonostante la
sua struttura semplice. Entravo al bagno con lo spazzolino in mano e non mi
ricordavo che cosa stavo facendo lì. L’impossibilità ad orientarmi, a riuscire
a tenere a mente un compito anche semplice abbastanza a lungo da completarlo,
era bruttissimo.
Ma quando l’Uomo Domanda era
confuso, era quasi delizioso. Mi sentivo debilitata e stupida, mentalmente e
fisicamente. Non riuscivo a capire come questa cosa così terribile stesse
accadendo a me – come fossi arrivata a vivere in questo posto orribile. Pensavo
fosse colpa mia. Volevo gridarmi contro per come i pensieri continuavano a
sciogliersi nella mia testa.
Ma l’Uomo Domanda poteva giocare
con queste idee invece di autoaccusarsi.
Non avevo idea di come uscire dal
profondo buco in cui ero caduta, questa incapacità di essere normale, di star
bene – di essere a malapena capace di scrivere.
Dentro di me, lo smarrimento era
terrificante. Nell’Uomo Domanda ispirava affetto.
Non capivo come potessi essere
completamente tagliata fuori dalla mia famiglia, dai miei antenati. Nessuno di
loro era mai stato pazzo, per quanto ne sapessi. Perché tutti gli altri avevano
una testa vera, con dentro un cervello funzionante, mentre tutto quello che
avevo io al posto della testa era questo palloncino malfermo, riempito con uno
strano, pesante elio del colore del Haldol?
In me, questo era ripugnante.
Nell’Uomo Domanda, era in qualche modo divertentissimo.
Io ero vergognosamente debole.
L’Uomo Domanda invece era debole in modo commovente. La mia coordinazione era
incredibilmente assente. Inciampavo in giro in un mondo che non aveva alcun
senso. Nel reparto, non c’era nulla di minimamente divertente a riguardo. Nel
mio quaderno però, avevo l’Uomo Domanda che inciampava su un gatto.
Odiavo me stessa e mi faceva
male. Principalmente, volevo morire, e non riuscivo nemmeno a fare questo.
Riversavo nell’Uomo Domanda tutto
quello che mi rimaneva della mia creatività, della speranza, dell’amore
dell’umanità e del desiderio di vivere.
Alla fine ne sono uscita, facendo
finta di essere d’accordo con quello che i miei sorveglianti pensavano ci fosse
di sbagliato in me, rassicurandoli che non avrei mollato le mie “medicine”.
Che, ovviamente, non ho fatto.
E alla fine mi sono fatta una
vita.
Ho dimenticato tutto dell’Uomo
Domanda; è stato decenni dopo che ho ritrovato, in una scatola i fogli
ingialliti del quaderno su cui l’avevo disegnato. La mia reazione al nostro
re-incontro? Sorpresa, divertimento, e un misto di amore, pietà e ammirazione
per la giovane me stessa psichiatrizzata.
Traduzione in italiano a cura di Marta
Traduzione in italiano a cura di Marta
published in The Stanza Project (Otter Press 2013)
Nessun commento:
Posta un commento