Dove sarei se non credessi in me?
di Corinne A.Taylor21 marzo 2016
articolo originale in inglese: https://absoluteprohibition.wordpress.com/2016/03/21/where-would-i-be-if-i-didnt-believe-in-me-corrine-a-taylor/
Il mio nome è Corinne A. Taylor e ho
intitolato questo pezzo, "Dove sarei se non credessi in me?"
Ogni volta che mi siedo per
condividere un aspetto della mia storia, lo faccio da uno spazio del mio cuore
che vuole condividere la consapevolezza nel mondo, pur sapendo che c’è stato un
periodo della mia vita, in cui non sapevo nulla e accettavo solo ciò che lo
psichiatra e l’assistente sociale mi dicevano. Ero disperata, avrei voluto
vivere una vita bella, ma non sapevo come. Ho imparato che non sono l’unica, e che
ci sono tantissime persone che semplicemente non sanno e che accettano di
essere etichettate e di prendere psicofarmaci. Tuttavia sono arrivata alla
consapevolezza e adesso so che questa è solo la mia storia, e che le storie
degli altri debbono essere rispettate e avvalorate come la mia storia, che ho scelto
di raccontare, sapendo che ognuno di noi è degno di vivere una bella vita. Mi
sto concentrando su un aspetto della mia vita: quello di non essere costretta a
prendere psicofarmaci; perciò ho concepito il titolo: “Dove sarei se non
credessi in me?” per la Campagna a sostegno del divieto assoluto del ricovero
coercitivo e del trattamento sanitario obbligatorio, nella CDPD.
Quando sono arrivata ad essere consapevole di ciò che mi stava accadendo nel servizio psichiatrico, e cioè della scelta di
accettare una diagnosi di malattia mentale e l’etichetta per così tanto tempo,
e di accettare gli psicofarmaci mentre
morivo lentamente in attesa di una cura per stare meglio, per vivere la vita
che volevo, ho deciso: mai più. Sin da bambina, con la mia mente, il mio corpo,
il mio spirito ho percorso un viaggio per la pace, ma è stato interrotto
dall’abbandono, dall’abuso fisico, sessuale ed emozionale, dalla povertà e da un’educazione
carente. Quando ho detto “mai più” all’ultimo psichiatra che ho visto, e che mi aveva offerto ancora più psicofarmaci, mi hanno coinvolta nella comunità per il
recupero (recovery) e ho imparato molto sulla storia della salute mentale nel nostro
mondo. Sono quindi stata informata e ho potuto scegliere. Scelgo di sentire
quello che ho bisogno di sentire, di lasciar andare quello che ho bisogno di
lasciare andare, di perdonare altri e me stessa e di imparare, di imparare di nuovo
e di imparare ogni giorno. Significava non poter continuare ad accettare la mente
paralizzata dagli psicofarmaci, cosa che non mi permetteva di accettarmi pienamente e di
lasciare andare pienamente gli effetti del trauma.
Quando ho avuto l’ultimo colloquio
con la psichiatra che mi ha offerto ancora più psicofarmaci, diversi tipi di psicofarmaci,
ogni volta dovevo dirle di no. Mi ricordo ancora l’espressione del suo volto.
Mi ricordo ancora la fiducia in me stessa e che sapevo quello di cui avevo
bisogno e quello che dovevo chiedere, e ciò che mi aspettavo di ottenere in
considerazione dei miei diritti umani. Posso ancora ricordarmi dell’ultima
sessione con la terapeuta che ho visto, che mi consigliava di ritornare da lei a breve, che avrei avuto bisogno di andare da lei per scaricare su di lei, anziché affrontarletutte,
le cose che accadono nella mia vita. Questo parlare con
lei e scaricare su di lei, significava non affrontare le situazioni con cui
avevo a che fare fuori dal suo ufficio. Significava: non collegare e scollegare,
non costruire relazioni e, ancor di più, non avere fiducia in me stessa.
Ma quel giorno ho creduto in me
stessa. Ho creduto nel percorso che stavo vivendo. Capivo tutte le dure lezioni
attraverso cui ero passata; imparo e mi piace la condivisione con gli altri, e il
modo in cui imparo dagli altri. Ho trovato persone che sono diventati amici, i quali
mi hanno sostenuto, e hanno creduto in me e contribuito ad alleviare il
fardello di un’esistenza opprimente, di povertà e di carenze. Mi hanno dato
forza le storie della Bibbia che avevo imparato da bambina, per non mollare e
perseverare. Ho scelto di condividere la mia storia su www.theproject321.com: è la lezione
dove ho imparato a prendermi il tempo per prendermi cura di me, e ho imparato
le lezioni di tutte le mie esperienze, in particolare di quelle dure.
Sono contenta di aver creduto in
me. Lavorare dietro le quinte di un ospedale psichiatrico mi ha davvero
aiutata quando ho visto che lo psichiatra e gli assistenti sociali, hanno
tutti i loro difetti come le insicurezze, i giudizi, i problemi di
comportamento e in realtà sono solo esseri umani come lo sono io. Questo mi ha
reso forte e fatto credere in me stessa. Quando sono venuti da me con notizie
negative, sono stata capace di difendermi. Li ho visti con tutti i loro difetti
umani, ma meritevoli di dignità e rispetto, che sapevo di meritare anch’io,
come chiunque altro. Se quell’ultima psichiatra con quello sguardo sul suo
volto che significava che lei sapeva cos’era meglio per me, avesse deciso di chiamare la
polizia e rinchiudermi, costringendomi ad assumere gli psicofarmaci che mi
stava offrendo, dove sarei oggi? Gli ultimi cinque anni ho lavorato per vivere,
in contatto con i miei figli che sostenevo emotivamente. Mi sono fatta degli amici
e degli alleati nella comunità, e vivo la mia vita inserita nella società, non sdraiata
sul divano piena di psicofarmaci in sovradosaggio, morendo lentamente e
accettando la diagnosi e l’etichetta. Chiedo nuovamente: “Dove sarei se non
credessi in me?” So dov ero finita quando non ho più creduto in me, accettando una
diagnosi di malattia mentale dopo l’altra, uno psicofarmaco dopo l’altro, senza
vivere il mio pieno potenziale come essere umano. Questo è tutto ciò che
voglio. Sento che lo merito, come ognuno di noi.
Traduzione a cura di Erveda Sansi
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