mercoledì 27 aprile 2016

Anche La Scienza Medica Argomenta Contro il Trattamento Sanitario Obbligatorio di Robert Whitaker

Anche La Scienza Medica Argomenta Contro il Trattamento Sanitario Obbligatorio


di Robert Whitaker 


26 marzo 2016

L’argomentazione che solitamente viene fatta contro il ricovero involontario e il trattamento sanitario obbligatorio è che, queste azioni, sotto l’autorità di uno Stato, violano i diritti civili fondamentali di una persona, privando una persona della libertà e dell’autonomia personali, in assenza di un’accusa penale. La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità sostiene questa posizione, vietando la discriminazione relativa a questi diritti. Su tratta di un argomento moralmente forte e deve essere posto al centro nella protesta contro il trattamento sanitario obbligatorio.

Tuttavia, vi è un altro argomento che può essere usato, come valore aggiunto, contro il trattamento sanitario obbligatorio: anche la scienza medica argomenta contro il trattamento sanitario obbligatorio.


Lo “Stato”, per giustificare il trattamento sanitario obbligatorio, sostiene che tale coercizione è necessaria per fornire “cure mediche” a persone che, a causa del loro stato alterato della mente, non danno il loro consenso a tale trattamento. L’implicazione è che, se l’individuo “psicotico” fosse sano di mente, lui o lei vorrebbero questo trattamento, e quindi lo Stato funge da valido guardiano. Ma dopo attento esame, questa argomentazione “medica” cade in frantumi.

In primo luogo vi sono prove, che il ricovero psichiatrico di per sé – sia volontario che involontario – porta all’aumento del rischio di suicidio. In uno studio del 2014, alcuni ricercatori dell’Università di Copenhagen, hanno esaminato il trattamento psichiatrico ricevuto da 2.429 individui l’anno prima di essersi suicidati, e dopo aver confrontato questo gruppo di suicidi portati a termine, con un gruppo di controllo di 50,323 persone nella popolazione generale, e dopo gli adattamenti per quanto riguarda i fattori di rischio, hanno concluso che il rischio di morire di suicidio è aumentato in relazione all’aumento dei livelli di cura psichiatrica.

L’assunzione di psicofarmaci fa aumentare di sei volte la probabilità che le persone commettano suicidio; il contatto con un ambulatorio psichiatrico la fa aumentare di otto volte; un accertamento psichiatrico in un pronto soccorso la incrementa di 28 volte; il ricovero in un ospedale psichiatrico aumenta la probabilità di 44 volte. [1]

In un editoriale che ha accompagnato l’articolo, che è stato pubblicato nel Journal of Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology, (Rivista di Psichiatria Sociale ed Epidemiologia Psichiatrica), i redattori - tutti esperti nella ricerca sul suicidio - hanno osservato che si tratta di risultati importanti. “Lo studio danese”, hanno scritto, “ha dimostrato una relazione statisticamente forte e dose-dipendente tra l’entità del trattamento psichiatrico e la probabilità di suicidio. Questa relazione è graduale, con un aumento significativo del rischio di suicidio che si verifica con l’aumentare dei livelli di trattamento psichiatrico”. “Questo collegamento è stata così forte”, hanno concluso, “che, a parità di condizioni, sembrerebbe ragionevole considerare, per esempio, una persona non-depressa, sottoposta a un esame psichiatrico nel pronto soccorso, di gran lunga più a rischio [di suicidio] rispetto a una persona con la depressione, che è sempre solo stata trattata nella collettività”.

I ricercatori hanno concluso che è “del tutto plausibile che lo stigma e il trauma inerente al trattamento psichiatrico (in particolare a quello involontario) possono a volte, in soggetti già vulnerabili, contribuire al suicidio. Crediamo che, con ogni probabilità, una percentuale di persone che si è suicidata durante o dopo un ricovero ospedaliero, lo abbia fatto a causa di fattori inerenti al ricovero”. [2]

In secondo luogo, da un punto di vista medico, la “relazione terapeutica” tra “paziente” e “dottore” viene intesa come fattore importante per un “buon risultato” e il trattamento obbligatorio conduce regolarmente ad una rottura in questo rapporto. Le narrazioni personali di persone che sono state sistematicamente sottoposte a trattamenti obbligatori, li paragonano a torture, stupri, e così via. Inoltre, queste narrazioni non possono essere liquidate come scritte da persone che sono “alterate” nel loro modo di pensare, sia in quel momento, che successivamente; narrazioni personali come queste rivelano spesso uno straordinario livello di dettaglio e chiarezza.

Terzo: il trattamento obbligatorio comporta sistematicamente iniezioni di antipsicotici, e un trattamento iniziale come questo è regolarmente precursore di un trattamento a lungo termine con questo tipo di farmaci (e spesso in maniera coercitiva). Tuttavia, vi è una sostanziale evidenza del fatto che il trattamento farmacologico a lungo termine è dannoso. Per esempio:

    Ci sono prove che i farmaci riducono il volume del cervello, e questa riduzione è associata ad un aumento dei sintomi negativi, della compromissione funzionale e del declino cognitivo. [3]

    I farmaci inducono la discinesia tardiva in una percentuale significativa di pazienti, la quale rispecchia i danni permanenti che sono stati fatti ai gangli basali.

    Martin Harrow, nel suo studio longitudinale sui pazienti psicotici, ha riscontrato che i pazienti medicalizzati se la cavano peggio nel lungo periodo in tutti i campi di funzionamento. Per pazienti medicalizzati c’erano otto volte meno probabilità di guarire al termine di 15 anni, di quelli che non erano medicalizzati. [4]
   
Questa è semplicemente una rapida rassegna dell’argomentazione medica, che può essere fatta contro il trattamento obbligatorio. Ma anche questo rapido sommario ci parla del trattamento che aumenta il rischio di suicidio, che può rivelarsi devastante per la “relazione terapeutica” e che può mettere una persona in un percorso di assunzione di psicofarmaci a lungo termine che - è stato constatato -  è associato a una varietà di danni e a scarsi risultati. 

L’argomentazione che il ricovero involontario e il trattamento obbligatorio siano eseguiti nel migliore interesse “medico” della persona “alterata”, cade in frantumi, se vista attraverso queste lenti scientifiche, una volta eseguiti, il ricovero involontario e il trattamento obbligatorio possono essere chiaramente visti per quello che sono.

Non sono strumenti per fornire la necessaria “assistenza medica” a un individuo, ma un’affermazione dell’autorità e del potere statale su un individuo, e tale affermazione di autorità viola i diritti civili fondamentali della persona. E’ necessario che qualsiasi discussione sul ricovero involontario e il trattamento obbligatorio, si focalizzi su questa problematica e non si distragga dalla pretesa del “clinicamente utile”.

[1] C. Hjorthøj, Risk of suicide according to level of psychiatric treatment—a nationwide nested case control study. Soc Psychiatry Psychiatr Epidemiol (2014) 49: 1357-65.
[2] M. Large. Disturbing findings about the risk of suicide and psychiatric hospitals. Soc Psychiatry Psychiatry Epidemiol (2014) 49:1353-55.
[3] J. Radua, “Multimodal meta-analysis of structural and functional changes in first episode psychosis and the effects of antipsychotic medications,” Neuroscience and Biobehavioral Review 36 (2012): 2325–33.
[4] M. Harrow. “Factors involved in outcome and recovery in schizophrenia patients not on antipsychotics medications.” J Nerv Ment Dis (2007) 195: 407-414.

Traduzione a cura di Erveda Sansi

Nessun commento:

Posta un commento